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Camera con vista

di Patrizia Masini

Finestra aperta: linea alta di orizzonte, strade in salita, le colline e i boschi della mia stanza. Veduta precisa fin nel dettaglio grazie alla magnifica luce dei giorni limpidi di tutte le stagioni.
Veduta sempre uguale negli anni – anche i silenzi e i rumori mi sembrano sempre uguali – all’occhio non distratto non sfuggono alcune case troppo ingombranti, un campo di calcio inutilizzato.
Dalla porta aperta il sole di mattina entra e sbatte in faccia, fuori, le pietre e i mattoni del vicolo; posso sedermi sui gradini di casa o, scendendo, sui gradini di Piazza della Chiesa o, ancora più avanti, sui gradini del bar. Un sentimento fortissimo mi lega a questa casa “dilatata”, che si allarga nel paese e nella campagna. Allerona, paese della memoria e delle radici, dove non vivo, è parte della mia identità, un patrimonio personale fonte di sicurezza.
Nasce un’Associazione Amici di Allerona alla quale penso di aderire in primo luogo per motivi sentimentali, un omaggio ai ricordi e alle persone. L’Associazione dà dunque corpo a un mio sentimento privato ma diventa necessariamente un’esperienza comunitaria.
Credo che sia possibile affrontare e discutere proposte e problemi che riguardano un patrimonio che non è solo personale, e che sia possibile indipendentemente dai percorsi individuali attraverso i quali ciascuno è arrivato all’adesione, percorsi che possono essere molto diversi e con prospettive – perché no? – anche diverse.
Due questioni mi sembrano importanti, quelle della tutela e della valorizzazione, due brutti termini oggi molto in voga: intorno a questi si dibatte in differenti ambiti in tutto il territorio nazionale, faticoso banco di prova degli amministratori pubblici. Certo è che non si tratta più di materie per pochi eletti. E forse sarà necessario ragionare su questi due termini che non sempre, al di là delle facili semplificazioni, vanno d’accordo l’uno con l’altro; da parte mia credo che esista obiettivamente il rischio che per “valorizzare” si distrugga. D’altro canto sono consapevole che con l’immobilismo non si risolvono i problemi.

Se è vero dunque che i cambiamenti sono necessari e che il paese e il territorio circostante non potranno più essere (già non lo sono più) quelli dei ricordi, è anche indispensabile che ciò avvenga nel modo migliore possibile (affinché il rimedio non sia più dannoso del male). Non sono temi di poco conto soprattutto perché non ci sono risposte precostituite: lo stesso concetto di patrimonio storico, ambientale, artistico, paesaggistico appare molto fluido, legato com’è ai cambiamenti e alle sovrapposizioni avvenuti nel corso del tempo.
Si dimostra in definitiva che tutto è suscettibile di discussione e che su molte questioni sono legittimi differenti punti di vista, purché siano ‘punti di vista’.
Sono convinta che su questi temi un dialogo con gli amministratori pubblici – cioè con coloro che sono delegati ad agire – sia una delle prime cose da fare.

Impariamo a guardarci dall’alto

di Franco Barbabella

Quando da ragazzo mio padre mi portava ad Orvieto da Allerona con la sua balilla verde, restavo ogni volta affascinato da quella vista alta di case e torri che si confondono in un tutt’uno con la rocca di tufo, quasi a costituire un gigantesco maniero che domina prepotente la campagna.
Molti anni dopo, quando ero sindaco, conobbi Cesare Brandi e sentii ripetere da lui più e più volte la sua nostalgia, che è oggi anche la nostra nostalgia, di quell’illumi-nazione della rupe che ne valorizzava il suo stagliarsi maestosa verso il cielo. Già, perché Orvieto è essenzialmente città alta, tagliata di netto dalla sua campagna, sicché più che di un rapporto di scambio città-campagna qui si intuisce una tendenza strutturale al dominio dell’una sull’altra e viceversa.
Più volte sono ricorso alla definizione che ne aveva dato molti secoli fa Fazio degli Uberti, per indicarne il tratto distintivo: città “alta e strana”. E’ quella congiunzione che fa la differenza: la categoria dello strano designa storicamente, per il suo stesso etimo – extraneu(m) “estraneo”, da extra “fuori” -, ciò che esce dal normale e che perciò genera stupore, o anche sospetto, ed è per questo considerato “straniero”. In fondo, forse proprio perché città alta e separata dal suo stesso territorio, Orvieto sembra considerare se stessa e comportarsi come estranea e perfino straniera. Se si scende da Buonviaggio in qualche mattina d’autunno può accaderti di vedere il Duomo uscire su dal gran mare di nebbia che invade la vallata e di avere l’impressione di trovarti di fronte ad una gigantesca nave immobile, arenatasi chissà quando e in perenne attesa di ripartire.
Allora ti viene in mente la difficile condizione dell’equipaggio e del suo capitano e quella dei passeggeri, costretti a navigare senza mare, senza poter toccare altri porti e incontrare altre genti. Mi sono chiesto tante volte se la “stranezza” fisica della città abbia avuto una qualche influenza sulla “stranezza” delle vicende dei suoi cittadini. Qualunque sia la risposta, è certo che, mentre essi sono in grado di guardare dall’alto, trovano, senza averne colpa, una certa difficoltà a guardarsi dall’alto. Ed essendo passeggeri di una nave di terra, spesso litigano fra loro per cose futili pensando che il mondo sia tutto lì.
Eppure basterebbe spostarsi un po’ e salire su verso le colline che portano ad Allerona, il punto più alto del territorio, per rendersi conto che Orvieto non è così alta come sembra a qualche suo abitante e che la sua stranezza sta tutta nel suo sentirsi e comportarsi da nave di terra.
Da lassù, da Allerona, lo sguardo può spaziare verso San Casciano, Radicofani e l’Amiata, o verso Città della Pieve, Perugia e l’Appennino. Da lassù Orvieto apparirà ancora bella e maestosa, importante e preziosa, ma ben inserita nel suo territorio, parte di un tutto più vasto, più ricco, più dinamico e stimolante.
Ecco il punto: proviamo non più solo a guardare dall’alto, ma a guardarci dall’alto! Ci accorgeremo che anche gli altri ci guarderanno con occhi diversi. Proviamo ad accettare la contaminazione delle diversità e la nostra identità ne uscirà rafforzata. Proviamo a pensare che, potenzialmente, in qualunque luogo ci troviamo possiamo portare su un piccolo schermo tutte le notizie e le immagini di tutti i luoghi del mondo e possiamo parlare con tutte le persone del mondo.
Proviamo a renderci conto che la difesa passiva, ognuno chiuso nel proprio recinto, è ormai solo una disperata resistenza che al massimo può ritardare cambiamenti altrimenti inevitabili. Proviamo dunque ad occuparci delle cose private e della cosa pubblica ritenendoci mondo e comportandoci da mondo e, forse, riusciremo a trasformare tutto il nostro territorio in una grande risorsa comune da spendere in una competizione positiva con gli altri.
Pensare in grande, volare alto, sognare: è il massimo del realismo. Per uno di Allerona è più facile, anche se, com’è evidente, certamente non basta.

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