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Gente di cortile

di Luigi Franzini

Noi Italiani non abbiamo una grande dimestichezza con il Bene Comune e l’Interesse Generale.

Anche quando ci mettiamo di buzzo buono, arriviamo al massimo ad occuparci del cortile di casa.

Quell’area di mezzo tra il ‘mio’ e il ‘tuo’ ovvero, il ‘nostro’, dove si gioca sostanzialmente la qualità della vita è misconosciuta se non addirittura negletta, contrariamente a quello che accade da Chiasso in su, e che contribuisce significativamente a qualificare quei paesi come particolarmente civili. Perché è proprio nella qualità della manutenzione del bene comune, inteso come comunità nazionale, che si misura il grado di civiltà di un popolo.

NIMBY, che sta per Not In My BlackYard, ‘No nel mio cortile’, rappresenta il contrario dell’interesse generale, è la conservazione di ogni tipo di status quo, ma nel proprio microcosmo. E’ uno di quei concetti che nascono anglosassoni, poi fanno carriera e diventano di dominio pubblico. Se n’é parlato molto negli ultimi mesi a proposito di discariche, termovalorizzatori, TAV, centrali nucleari e oggi a proposito della manovra economica del governo Monti. Vogliamo provare a ragionare e ad analizzare alcune delle cause che determinano questo irresponsabile modo di porsi nei confronti dell’interesse generale.

Cominciamo innanzitutto col dire che la nascita di localismi male interpretati è responsabilità della politica così come si è configurata, in particolar modo, negli ultimi 30 anni e che ha spinto i cittadini a ridurre la propria geo-identità al cortile di casa, appunto, perdendo di vista così l’idea stessa di Nazione (a dire il vero non siamo mai stati molto ferrati su tale argomento) in tutte le sue necessarie declinazioni ed esigenze. L’iper-luogo del proprio localismo o della propria identità sono diventati l’unico parametro  disponibile per misurare gli eventi che ci accadono intorno. La salvaguardia del proprio ambiente e dei propri interessi  sono assurti a  ‘valori’ non più circoscritti ma universali. La ‘tutela’ del proprio ambiente è diventata la tutela del pianeta, la difesa dei propri interessi, la difesa di un diritto, anch’esso ‘universale’. Le azioni conseguenti sono stati pertanto proposti, ovviamente, per il  “bene comune” (sic). ….Continua »

Non restate folli

di Alessandro Della Corte

da www.rivistailmulino.it, del 15 Novembre 2011

Sono i vincenti, si sa, che scrivono la storia. Non solo i vincenti sul campo di battaglia: anche nel mondo della ricerca, nell’arte e nel mercato sono quasi sempre i vincenti a raccontare come le cose sono andate. Il 12 giugno 2005 un vincente per antonomasia, Steve Jobs, pronunciò di fronte ai laureandi di Stanford un discorso che, già subito ampiamente pubblicizzato, dopo la sua morte è stato elevato quasi a testo sacro da giornalisti e specialisti in comunicazione di tutto il mondo. Il tono del discorso era quello di un’esortazione accorata ai giovani studenti: cercate di seguire le vostre passioni, rifuggite dai percorsi di vita preconfezionati e credete in voi stessi. Come tutti i testi sacri, il discorso (che conteneva alcuni spunti molto più interessanti dei precedenti, come la difesa di una cultura ricca e varia più che immediatamente spendibile a scopo produttivo) è stato in realtà letto poco dalla maggioranza dei suoi devoti, che si sono per lo più accontentati della banalizzazione giornalistica e, soprattutto, del motto che Jobs (riprendendolo da quell’accattivante contenitore che era il Whole Earth Catalog) scelse come conclusione: restate affamati, restate folli.

Ci sono almeno tre motivi per i quali non dovremmo accettare ingenuamente quel discorso, e in particolare quest’ultimo motto, come guida ideale di vita per tutti i giovani.

Il primo è di natura, per così dire, geografica. Jobs si rivolge a studenti americani, e tutto il suo ragionamento è riferito agli Stati Uniti. Insiste, ad esempio, sul fatto che l’università costa moltissimo e spesso non fornisce ciò di cui lo studente-cliente ha davvero bisogno. Ma in Italia l’università è pubblica (e costa molto meno) e lo studente non è un cliente. Lo scopo primario dell’università italiana è quello di formare competenze utili alla collettività, non di aiutare ciascuno studente nella sua personale scalata sociale. Jobs parla a giovani che hanno il problema di farsi spazio in una società (quella americana) in cui non c’è uno stato sociale di stampo europeo, ma ci sono i corsi privati di auto-motivazione su come imparare a sgomitare nella competizione con il prossimo. Le indicazioni che fornisce si adattano perfettamente a quel contesto, ma pensare di distribuirle come perle di saggezza in Italia è molto superficiale. Non che la fiducia in sé stessi, da noi, non sia importante (anzi è così banalmente importante che è noioso ricordarlo a ogni piè sospinto). ….Continua »

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