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Un ricordo di Eugenio

di Giorgio Albani

C’è una strada, per il vero piuttosto impervia, che partendo da Orvieto e tagliando la macchia mediterranea, raggiunge il culmine del Monte Peglia dal lato occidentale. Così per gioco mi viene da chiamarla la “via nord”, facendo il verso a improbabili scalate verso quello che è un rilievo non molto alto di questa nostra area geografica. Per il vero la “via nord” io la percorro da almeno 16 anni per raggiungere un luogo di lavoro che, nel tempo, è divenuto anche del cuore e dello spirito. La mia mèta è la comunità psichiatrica Lahuèn ove svolgo da molti anni il ruolo di medico, occupandomi della riabilitazione della tossicodipendenza e delle malattie psichiatriche.

Inutile dire che in questo luogo ho tanto dato quanto ricevuto.

Superato il piccolo paesino di Morrano, in qualche modo non dissimile da Allerona, s’imboccano dei modesti tornanti che, prima di raggiungere il culmine della montagna, rasentano il cimitero del borgo. Ogni volta che posso lascio la macchina sul ciglio della strada e m’incammino all’interno di quel piccolo, ordinato luogo di silenzio. La cancellata di ferro si apre su storie molto diverse, ognuna con la sua dignitosa presentazione. Mi fa piacere soffermarmi in questo angolo di mondo perché ospita una persona per la quale sento ancora stima e affetto profondissimi: la dottoressa Mirella Guerrovich, fondatrice della comunità. Questa donna, attraverso il suo carisma e le sue capacità, ha saputo indicare la giusta via a molte persone per conoscere meglio se stesse e per tornare alla vita.

Da qualche tempo, tuttavia, ho una ragione in più per soffermarmi in questo luogo. Nel fondo del cimitero, nell’angolo di sinistra, è ospitato un piccolo numero di loculi. Passando lo sguardo nella fila più alta ad un certo punto ci si imbatte in un nome che non può passare inosservato: EUGENIO RICCI.

Ogni volta che mi capita di soffermarvi lo sguardo mi viene da pensare “ma che ci stai a fare qui Eugenio?”. Senza per nulla voler mancare di rispetto a chi ha eletto questo luogo a residenza definitiva.

Il fatto è  che vedere Eugenio lì, per me, con tutti i ricordi che porta quel nome, è proprio una nota stonata…Come dire? Un fuori posto.

I miei primi ricordi di Eugenio risalgono a non so quando.

Se mi sforzo un po’ a pensare rivedo i bagliori della luce che trafiggeva il vetro spaccato della sagrestia della chiesa di S. Maria Assunta di Allerona. Guardandomi mi scopro indosso una veste bianca con greche rosse che è sovrapposta ad una talare nera. Intorno a me, vestiti presso a poco nello stesso modo, ci sono i miei amici d’infanzia.

Rivedo loro e nel contempo sono cosciente del percorso, a volte bello, a volte meno, di ciò che gli avrebbe riservato la vita. E poi c’è Eugenio che, con il suo lungo camicione da sagrestano, capo assoluto dei chierichetti, impartisce ordini, aggiusta vesti, pulisce ampolle, accende incensi. Nel frattempo, un po’ balbettando, parla delle sue storie d’amore, proprio come se fossero cose vere. Lo rivedo felice ed appagato di quel suo forse unico ma visibilissimo ruolo. Lo osservo mentre si dispone ai lati dell’altare maggiore per declamare le sue letture, questa volta con voce chiara e scandita. Cosa questa che, causa la sua imperitura balbuzie, era già considerata un quasi miracolo dagli alleronesi.

Poi lo rivedo nelle pause pomeridiane, per le vie del paese, mentre cammina velocemente, riscuotendo inespresse benemerenze per il servizio della messa domenicale. Certamente era persona particolare. Non ci sono dubbi. Capitava a volte che parlasse molto e a volte, invece, che lasciasse la parola solo alle sue campane. La sua casa, al centro del paese, lo ospitò per lungo periodo con la vecchia madre. Negli anni giovanili, in qualche modo, era sufficientemente intercalato nel contesto sociale del paese. A differenza delle città, il paese spesso assorbe e valorizza le diversità. A volte, invece, le amplifica e le fa percepire come un peso infinito.

Se qualcuno, nei miei anni giovanili, mi avesse chiesto che forma aveva un sagrestano non avrei potuto che dargli quella di Eugenio Ricci, emerito e forse ultimo vero sagrestano del paese. Di questa figura, spesso narrata nei racconti d’autore, Eugenio riassumeva tutte le virtù e fors’anche qualche modesto, tollerabilissimo vizio.

Poi, purtroppo, giunsero per Eugenio gli anni della solitudine e del degrado. Vennero gli anni della rabbia percepita verso il proprio luogo delle origini e verso le persone che lo avevano (non so se nel reale o nell’immaginario) escluso. Non è giusto parlare degli ultimi anni né commentare quella sua decisione estrema (così ci dicono) di non voler tornare ad Allerona nemmeno oltre la vita. Se autentica, va rispettata e basta. Non possiamo, però, dimenticare che Eugenio è stato un pezzo importante della storia del paese e di molti di noi.

Forse esistono alcune vite sbagliate (non mi permetterei mai di dire che quella di Eugenio lo fu) cui la morte torna a dare dignità. Se da una parte sarebbe bello l’atto di un riconoscimento collettivo, dall’altra resta importante che ognuno continui a conservare il ricordo di Eugenio non solo nelle foto delle mille cerimonie di famiglia ma anche nel proprio cuore.

Il lupo di Villalba

di Aroldo Cupello

Era un lupo vecchio ed ormai solitario. La sua compagna ed i compagni  li aveva tutti persi  vagabondando tra i monti, i boschi sempre più impervi per riuscire a sfuggire a quegli strani “umani” che tanto lo attiravano ma che erano gli unici animali  veramente pericolosi.

Ed ora in autunno era in quella selva di quel monte rosso di foglie e battuto dal vento. Lungo la strada i rombanti” con le quattro zampe rotolanti erano rari, ma sempre minacciosi per lui. Laggiù su quella rocca c’era un gruppo di tane degli  umani e sul poggio di fronte alla rocca c’era il loro cimitero. Su un colle più vicino a lui il vento ululava e fischiava. Il vecchio aveva visto tanti posti così ed aveva sempre schivato i gruppi di umani. Questo posto però gli appariva speciale, gli ricordava molto di ciò che aveva vissuto in quegli anni a partire da quando aveva lasciato cucciolo quel dirupo che cadeva nel mare, lontano lontano da lì. Aveva seguito mamma lupa ed il branco… Monti, fame ed il costante pericolo degli umani e dei loro fucili. E… quanto cammino tra i boschi e le cime battute dal vento… e quella volta che fulmine era caduto colpito dai pallettoni e lui aveva dovuto fuggire come il vento per salvare il pelo… e quando la dolce bella era caduta e sparita in quel precipizio… Ed ora questi monti e questa bella, silenziosa valle. Il vecchio la sentiva familiare. Chissà magari c’era già passato oppure… oppure c’erano passati i suoi antenati, chissà… E venne la notte, una meravigliosa notte senza nuvole e con una luna piena e d’argento che inondava la valle. Scese lungo il bosco finché giunse a ridosso del vecchio cimitero. C’era una radura tra i boschi. Era davvero un lago d’argento sotto il chiaro della luna.

Si accoccolò al margine di quella radura e sentiva attorno a se i mille ululati dei suoi simili ed il vento gli portava l’eco di mille scorribande, di mille pericoli… Lui non sapeva, ma ricordava, … forse un richiamo lontano…

E in quella luce d’argento si addormentò anche lui, il vecchio lupo di Allerona.

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