Archivi per la categoria ‘heimat 2000/3’

Con Jader

di Franco Barbabella

Mi piace l’idea di un Heimat ‘glocal’, capace cioè di coniugare locale e globale. Jader Jacobelli coglie e rilancia da par suo il senso di Heimat, invitandoci, dal colle “quasi dirimpettaio” di Monte Rubiaglio, ad andare oltre i confini, tutti i confini, per costruire un’identità in progress. “Da Allerona – egli dice -, come da qualunque altro sito in cui sono le nostre radici, ci si deve muovere in un territorio sempre più ampio, non per allontanarsi ma per ricercare intorno tutti quei segni che ci rendono più simili, meno diversi”. Sentiamo immediatamente che queste parole sono vere, che non può non essere così. Chissà se questo dialogo tra colli quasi dirimpettai, così fitto già solo dopo due numeri – Allerona e Orvieto, poi Allerona, Castel Giorgio e Monte Rubiaglio -, potrà moltiplicarsi fino a coinvolgere non solo tutta la terra degli Umbri, come auspica Jacobelli, ma anche la vicina terra attraversata un tempo dalla Via Francigena, da Acquapendente a Radicofani, magari fino a Siena? Chissà se a Todi, come a Giano dell’Umbria e a Città della Pieve, non meno che a Città di Castello e a Montefalco, sono maturate le stesse idee e le stesse sensibilità, ed è presente lo stesso bisogno di una visione ‘glocal’? Va verificato, è uno spunto troppo interessante per essere lasciato cadere. Per intanto però ci conforta il fatto che intervenga nel dibattito il Sindaco di San Casciano dei Bagni e che dunque il dialogo tra colli quasi dirimpettai prenda anche la direzione della Francigena. Già, la Francigena: vengono in mente l’Europa medievale, il viaggio, i pellegrini. E non siamo forse noi, uomini del tempo delle strade telematiche, i nuovi romei, i nuovi viatores, che sentono pungere dentro di sè l’instabilità esterna e perciò si mettono continuamente in cammino alla ricerca di un possibile ristoro spirituale, di una nuova possibile salvezza? Dentro/fuori, centro/periferia: che cosa viene prima e che cosa viene dopo? Nulla più è scontato. Le antiche periferie possono essere i nuovi centri e congiungersi a quelli che periferie non sono mai stati, le antiche radici possono alimentare i germogli delle nuove sinergie di rete. Allerona, Castel Giorgio, Monte Rubiaglio; ma anche Allerona, San Casciano e Acquapendente; ma anche Orvieto e Todi e Perugia; e perchè non anche Allerona, Orvieto e Siena? Non è solo questione di storie locali spesso fortemente intrecciate, di segni scritti nelle pietre e nelle teste, di duomi e di palazzi, di famiglie e tradizioni. E’ questione di bisogni di oggi, che possono essere meglio soddisfatti se quei segni vengono percepiti e quelle storie valorizzate, ma che richiedono anche un atteggiamento positivo e creativo rispetto alle sfide del nostro tempo. D’altronde non siamo forse all’inizio, oltre che di una rivoluzione tecnologica, anche di altre non meno sconvolgenti trasformazioni? Non siamo, ad esempio, all’inizio di grandi cambiamenti istituzionali, sul piano nazionale non meno che su quello internazionale? Il nuovo regionalismo, soprattutto se considerato nella prospettiva europea, non pone forse già oggi il problema del superamento dei confini amministrativi, non solo comunali, ma anche provinciali e regionali, verso la ricerca di nuovi punti di convergenza e di nuovi equilibri? E la competizione non spinge forse verso una rete di sistemi territoriali ciascuno dotato di forte specificità e insieme capace di relazioni vaste e dinamiche? Sì, ne sono convinto, il dialogo tra colli quasi dirimpettai deve continuare e moltiplicarsi, ve ne sono tutte le ragioni.

L'appartenenza, il Borgo e la crisi dantesca

di Giovanni Bollea

Ricordo che in un racconto di Cechov c’era un violinista che suonava guardando lontano dalla finestra della sua casa di città, su un largo spazio alberato, muovendosi lentamente. Capo immobile e occhi fissi all’infinito, le sue note dolci anche se melanconiche, esprimevano molta serenità. Ogni tanto una breve pausa, senza alzare l’archetto, come se un pensiero lo fermasse. La storia diceva solo che, in passato, un momento di paura non grave ma significativo l’aveva spinto a suonare pensando alla sua vita: la partenza e il distacco dal Borgo natio. Molti di noi hanno trascorso l’infanzia in un Borgo di poche migliaia di anime, e poi una partenza, un ritorno, gli incontri con gli amici d’infanzia rimasti che ritroviamo maturi, o addirittura invecchiati e che, a volte, scontenti del loro vissuto, ti guardano esclamando: “fortunato te che vieni da lontano”. Si ma alla sera dormendo, a casa di quegli amici, nel tuo Borgo natio, suoni anche tu il tuo violino e ricordi flash teneri, commoventi, esaltanti, ma molto spesso tristi: nascita, famiglia, sogni e desideri dei tuoi genitori per il tuo futuro. E quelle partenze, più disperate che allegre, magari verso una guerra, quando senti che il tuo distacco è definitivo, o che vita e carriera sono altrove. Nel racconto, il violino ogni tanto tace a lungo, per ricominciare con ritmo più vigoroso e deciso, ma più triste…”Nel mezzo del cammin di nostra vita”.. pensiero scontato, certo, ma forse in certi momenti insostituibile. Il vigore e la forza del suo timbro ci danno l’impressione di un bilancio positivo. Mi ricordo che leggendo, ricordavo le varie partenze, quando, a fine estate, lasciavo la nonna materna, Margherita, ma poi reagivo studiando molto per poter ritornare da lei. Una partenza traumatica, è stata l’ultima, quando a 22 anni seppellii mia madre di 45 anni (due anni prima avevo perso mio padre di 48 anni). Ricordo quelle interminabili ore, fermo, una pietra, sul mio balcone, ad osservare i coppi delle case. E quel dolore forte, quegli occhi fissi. Invece di farmi devastare dall’istinto di morte, feci una promessa, che si trasformò immediatamente nel dovere, nella necessità di sublimare il dolore, realizzando tutti i sogni dei miei genitori. L’essenza delle loro speranze corrispondeva a quegli ideali che mi avevano trasmesso. Partivo, ritornavo, ripartivo: una necessità che andava oltre il pianto sulla loro tomba. Il mio Borgo! Me ne accorsi quando realizzai che nominavo sempre, con orgoglio, il suo nome. L’appartenenza al Borgo, quasi un ritorno medioevale quando non esisteva la famiglia ma il ‘lignaggio’, che non si riferiva soltanto al casato dei nobili, ma anche al ‘clan’, legato all’etica comune del paese tutto. Quando il sindaco mi decorò come Cittadino Onorario del mio paese, mi sentii premiato della massima onorificenza, perchè avevo superato i sogni dei miei genitori e mi sentivo in pace con il mio Borgo. Il dolore dell’ultima partenza era ampiamente superato da quel ritorno. Si, avevo onorato il Borgo ma, anch’esso, come punto di riferimento mi era servito come Stella Polare.

Il Prof. Giovanni Bollea ha 87 anni. La comunità scientifica internazionale lo considera il padre della Neuropsichiatria Infantile. Si è formato a Losanna, Parigi e Londra dove ha collaborato con i grandi clinici del secolo passato. E’ professore emerito presso l’università “La Sapienza” di Roma. Fondatore e Direttore dell’Istituto di Neuropsichiatria infantile, fu il primo Presidente della Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile. Dice di se’: ”Alla mia età sono felice quando al mattino mi alzo e realizzo che sono uno psichiatra infantile. Che vedrò i bambini e farò sorridere qualche madre”. Il professor Bollea ci onora della sua amicizia.

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