Archivi per la categoria ‘heimat 2000/3’

Pueblo

di Gianpiero Pelegi

Intitolo questo scritto pueblo per collegare, idealmente, la mia terra alla realtà in cui vivo. Pueblo ha valore polisemico: è “il paese, il villaggio”, ma anche “il popolo, l’insieme delle persone che abitano un luogo”. Le voci alleronesi che propongo, si dipanano tra questi due poli.

Ansano. S. Ansano. Patrono di Allerona. Nel nostro dialetto il nesso /ns/ passa a /nz/. Leggerai, dunque, Anzàno. Ma guai a scriverlo così! Ne sanno qualcosa alcuni contadini nostri compaesani, i quali, negli anni cinquanta, organizzarono (male?) la festa del Santo Patrono. Gli sprovveduti fecero stampare un manifesto di color rosso, con su scritto: “Festa del Patrono S. Anzano”. Di rimando, alcuni musicanti poetarono: “Quest’anno che ‘l festarolo è ‘l gran villano/ e dato che la critica non vieta/ anche ‘l nome del patrono S. Ansano/ l’hanno voluto scrive co’ la zeta”.

Busicchie. Leggi bbusícchje. Rendo omaggio al maiale (così importante nella nostra cultura), ricordando questa voce dialettale di etimologia incerta che in lingua è busecchiaLe bbusícchje sono gli intestini del maiale che, conditi e seccati, si mangiavano rosolati sullo spiedo (lo spito). Altro che patatine fritte!

Chiú. Voce onomatopeica. Rapace notturno degli Strigiformi dal nome fantastico e misterioso; come misterioso era, ed è tuttora, il suono che emette. Qualcuno tra i miei amici, ma solo i più abili, riusciva ad imitarlo. Scopersi più tardi, nei versi del Pascoli, che in italiano si dice assiuolo.

Dolco. Deverbale di latino tardo dulcare, addolcire. Si dice: è dólco, per designare quella strana dolcezza del clima che precede una precipitazione nevosa.

Espresso. C’è il settimanale di politica, cultura e economia, ma c’è anche L’espresso che vien da Parigi, canzone erotico-errante, nella quale un controllore inopportuno appariva all’improvviso per bucare il biglietto della bella.

Fontana. Quella della Madonna dell’Acqua. Oggetto poetico del professor Germano Scargiali, che, in endecasillabi, scrisse: “[º] la Madonna de l’Acqua prodigiosa,/ de la fonte, che mormora tranquilla”. Mormorava, professore,mormorava!

Gojo. Specie nell’accezione di sciocco, stupido. Si dice: sèe pròprio gójo, o ancor di piú: sèe ‘n gójo a pròva, e cioè il massimo della stupidità. Da lontano, nelle mie rogazioni, chiedo per il nostro paese: a stultis libera nos domine (vd. Heimat).

Heimat. Si racconta che un giovane ammiratore di De Gaulle disse al generale: “Mon gènèral, mort aux crètins!” (le góje, diremmo noi), e De Gaulle rispose: “Mon jeune homme, votre programme est trop ambicieux!”. Cito la battuta per gli amici che attendono a questa pubblicazione. Comunque, auguri.

Isidoro. S. Isidoro. Patrono dei contadini. Festa di ancestrali riti pagani, nella quale, per celebrare il trionfo della buona stagione e della fertilità, vengono allestiti i bellissimi pugnaloni. Il pugnalone è voce di etimologia incerta che forse muove da pungolo (esistono però altre teorie), un lungo bastone acuminato usato per stimolare i buoi al lavoro.

Lampà. Lampeggiare, balenare. In senso figurato, si dice: va’ a cacà do’ làmpa. L’imprecazione, come ben sa l’alleronese verace, non è un invito a trasferire, nei giorni di cattivo tempo, il luogo in cui si defeca.

Morto del loto. Toponimo. Non ho mai saputo dove si trovasse con esattezza. Designa un luogo impenetrabile, malsano e temibile, almeno a sentire i racconti di certi nostri compaesani che ci sono stati. Se costoro mi avessero detto che Virgilio Marone li aveva guidati nella risalita de le controfónne del Morto del loto, ci avrei creduto.

Nacca. Ubriacatura. Gli eschimesi hanno circa cento maniere diverse per descrivere la neve. Noi, un po’ più a sud, denotiamo in vari modi l’ebbrezza prodotta dal dio Bacco: scialúppa, mína, scímmia, tropèa, crògnola, mèla, stàrna, lècca, lúpa, ecc.

Orazioni. Mio nonno, prima di andare a letto, mi diceva: ll’àe dètte ll’orazióne? Alcune erano bellissime. Ne propongo una come catarsi collettiva: “Padrenostro piccolino, ‘gni sera ll’addiremo,/ ‘n paradiso cc’annaremo./ All’inferno la triste gente [º]“.

Purgatorio. C’è quello di Dante e, modestamente, c’è quello di Allerona. Nella toponimia locale era la sede del circolo ACLI, in cui le anime andavano di sera a vedere la televisione (l’unica esistente in paese). Era tutto un programma dire: vo’ ‘n tantinèllo là ‘l Purgatòrio.

Quatrine. Sono i soldi degeminati. Dicono che siamo un paese ricco, con le quatríne. Mi fa piacere. Ma le cose erano ben diverse non molti anni fa. Ne è forse conferma il detto: so’ rivàte ll’innocentíne (il 28 dicembre), so’ finíte le fèste e le quatríne.

Ripuglie. Leggi Ripújje. Toponimo. Fosso che si riversa nel fiume Paglia. Il Ripújje formava una gora in cui si andava (a piedi) a fare il bagno quando non c’erano ancora le piscine.

Sottofosso. Toponimo. Luogo mitico dell’adolescenza. Punto d’incontro dei giovani che, in gruppi, si avviavano verso la galeotta passeggiata del cimitero (ma oggi non ce n’è più bisogno). C’erano dei bei tigli e delle panchine in marmo che una frana, e l’amministrazione comunale, hanno trasformato in un parcheggio per le automobili (bellino!).

Topo[sifone]. Abbiamo due categorie di roditori: i topi della filastrocca infantile Piso pisello, che possono suonare il tamburo arrampicati ai muri (“[º] e le tope su pe’ ‘l muro/ che sonavono ‘l tamburo”); e il toposifone, “animale” che potrebbe ben figurare nel Manual de zoología fantástica di Borges. Questo “singolare roditore” vive esclusivamente nelle cantine. Può tracannare il vino dalle botti con grande facilità. Non si ubriaca.

Uno. Dire: ho fàtto ll’úno co’ la púla, significa, in senso stretto, l’andare in malora del raccolto. La pula è voce di origine ignota, designa, lo dico per i più giovani, il residuo della trebbiatura del grano. Nel nostro idioletto questa espressione può esser utilizzata in diversi contesti (persino per un rapporto amoroso andato in vacca).

Vasca. Giro parziale del borgo. La vasca “regolamentare” è la seguente: si parte dalla piazzetta del bar, si scende verso le Fontane, si imbocca Sottofosso; giunti al Palazzo si gira a destra, e si risale, chiudendo l’anello. La vasca si deve farein buona compagnia (in casi eccezionali la si può percorrere in senso contrario).

W. Ce l’abbiamo anche noi la doppia vu! La usiamo in un’abbreviazione: W SAM, realizzata con delle lampadine su una sagoma di legno. Non ha niente a che vedere con il leggendario pianista di Casablanca. Si può ammirare in occasione della festa di S. Ansano. Sta per: Viva S. Ansano Martire.

Zi’. Zio o zia. Credo che la zia che risiede nel nostro immaginario collettivo sia stata (e sia tuttora) la zzi’ Nina. Tutti la chiamavano così. Non ho mai saputo quale fosse, in realtà, il suo nome (Nina era l’ipocoristico di Giovanna?). Di lei resta, nel nostro idioletto, la locuzione: tè sèe cóme la zzi’ Nína, e cioè ti conoscono tutti, sei parente di tutti.


Città e Campagna

di Dante Freddi

Un amico, quando si riferiva a quelli fuori della Rupe, li citava qualificandoli abitanti delle “terre soggette” del libero Comune, come raccontava ogni anno la voce squillante di monsignor Rosatelli in occasione dell’”uscita” della processione del Corpus Domini. E non scherzava. L’amico, ovviamente. Il villano, quello fuori porta, quello che entrava ad Orvieto con il somaro o la coppia di buoi qualche decennio fa e che molto più recentemente veniva in città il giovedì ed il sabato, con la camicia pulita, e faceva colazione con trippa ed alici lì, dietro piazza della Repubblica, dall’”Orso”, era visto dal mio amico come una tipologia umana che nulla aveva a che spartire con l’abitante della Rupe, alta, chiusa, sicura. Un tempo, ma in fondo è soltanto qualche anno fa, nel centro storico abitavano proprietari, commercianti, artigiani, impiegati, militari. I contadini stavano in campagna o si erano inurbati a Sferracavallo, mentre qualche Orvietano della Rupe si stava insediando a Mossa del Pallio e a Ciconia. Era quando a Porano c’erano i Poranesi, gente particolare, “gajarda”, con dei caratteri propri: razza in via di estinzione, in un ambiente reso meticcio dalle invasioni di massa di Orvietani in cerca di villino bifamiliare. Oggi le carte si sono mischiate e la composizione economico-sociale-culturale di centro e “suburbi” ha subìto un’evoluzione che non ci consente più una netta identificazione. Città e campagna non costituiscono più un’antinomia, non dividono, il flusso tra una e l’altra è osmotico. Rappresentano soltanto la scelta di uno stile di vita che privilegia alcuni benefici rispetto ad altri e spesso la scelta, quale che sia, è vissuta in modo contraddittorio: si sta in un luogo e si vorrebbe stare in un altro, ma mantenendo i pro e cancellando i contro. È difficile venire dalla città e vivere in pienezza di soddisfazione la campagna, ed il contrario. Manca sempre qualcosa dell’esperienza precedente, che ci fa essere come siamo. Non so quanto sia corretto da un punto di vista sociolgico parlare di rapporto città-campagna ed utilizzare dimensioni come quella di Orvieto e del suo “contado”, ma è certo che la mia memoria contiene concetti ed immagini e sapori in cui queste due realtà hanno ciascuna una propria precisa collocazione. È città il gioco dell’infanzia, la piazza, il pallone, la neve, e poi la scuola, la “Confaloniera”, il lavoro, la passeggiata per il Corso, gli amici, le parole, il bar. È campagna il Sole, l’odore delle “vetriche” a Paglia, le giornate trascorse a pesca pensando ai pesci, le lunghe camminate, il sudore, i funghi, la legna, la tramontana.
L’idea iniziale di un’analisi più scientifica del rapporto tra città e campagna si è diluita, è stata contaminata da sentimenti e ricordi, che pure servono, cambiando quanto c’è da cambiare, per misurare noi di fronte a queste due “entità”, che rappresentano il riferimento importante di tante nostre affermazioni ed aspirazioni, che costituiscono il luogo dove collocare i momenti diversi della nostra vita, lo scenario dell’esistenza, dove ci vediamo o vorremmo vedere.


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