Archivi per la categoria ‘heimat 2000/4’

Terre marginali

di Fabiola Di Loreto

Nella sua relazione dal titolo “La tutela dell’ambiente e lo sviluppo economico”, tenuta il primo ottobre 2000 ad Assisi nell’ambito della giornata mondiale della natura, il Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio ha dichiarato che “le problematiche ambientali si intersecano con le prospettive di sviluppo del nostro Paese e che devono essere sostenuti costi, ma possono configurarsi grandi opportunità”. In effetti, la contrapposizione tra sviluppo e difesa dell’ambiente, tra progresso e tutela, tra tradizione e innovazione, tra locale e globale è l’alternanza che mette in gioco la capacità o meno di quei piccoli territori marginali di trasformare il proprio patrimonio, fatto di cultura, uomini e tradizioni in opportunità su cui innescare sviluppo economico e conseguenti condizioni per il mantenimento della permanenza dell’uomo. Si è occupato di questo aspetto un recente studio realizzato per Legambiente e Confcommercio da Serico – Gruppo Cresme – che ha preso in esame 2.830 comuni d’Italia che si definiscono, forse in maniera un po’ esagerata, a “rischio di estinzione”. Si tratta cioè di quei centri diffusi capillarmente su tutto il territorio nazionale e che si collocano lungo l’arco alpino e lungo la dorsale appenninica, interessando anche le zone interne montuose del Mezzogiorno e di Sicilia e Sardegna. Nei 2.830 comuni interessati – pari al 35% del totale – risiede l’8,7% della popolazione con un reddito medio inferiore del 26% alla media nazionale. Sono, però, i centri in cui è meglio custodito l’immenso patrimonio storico e culturale, naturale ma anche enogastronomico del Paese. Un patrimonio fatto di prodotti tipici, tradizioni, artigianato artistico e beni culturali, elementi questi su cui si dovrà giocare in futuro il nostro ruolo di Bel Paese con una rinnovata capacità di utilizzare al meglio questi valori competitivi nel processo di globalizzazione in corso. Ma quali sono allora i rischi che corrono questi Comuni? Secondo il Presidente della Confcommercio, Sergio Billé, molti: “spopolamento, impoverimento per mancanza di infrastrutture di base, ….quali scuole, uffici postali dove poter ritirare la pensione, protezione ambientale per non finire sommersi dal fango in una notte di pioggia, strutture commerciali, luoghi di ristoro, collegamenti di pubblico trasporto, ecc…. ma anche una graduale, progressiva distruzione di quel patrimonio culturale che costituisce la maggiore fonte di ricchezza del nostro Paese. Occorre allora che in queste aree geografiche, in questi piccoli centri si intervenga percorrendo uno sviluppo cosiddetto sostenibile. Nel 1987 l’ONU definì lo sviluppo sostenibile quello “….che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”. Uno sviluppo, quindi che tenda a creare economia e crescita sociale nella tutela delle risorse ambientali e nel rispetto della caratteristiche proprie dei territori e delle tradizioni della loro gente. Occorre un patto forte tra sviluppo economico e tutela ambientale ma è necessario anche mantenere le condizioni utili per garantire un buon tenore di vita alla popolazione che abita questi comuni marginali. Non bisogna mai dimenticare, infatti, che la prima ricchezza in assoluto per qualunque territorio è data dalla ricchezza insediativa che rappresenta una garanzia del nostro sistema sociale e culturale, una certezza nella manutenzione del territorio e una opportunità di sviluppo economico. Il rapporto di Legambiente e Confcommercio sottolinea come il disagio abitativo di questi comuni italiani rischia di divenire profondo disagio con la crescente rarefazione dei servizi al cittadino, servizi pubblici accorpati per il contenimento dei costi (uffici postali, presidi territoriali scolastici, sanità, ecc..), insufficiente manutenzione del territorio, esercizi commerciali privi di una domanda adeguata per la loro sopravvivenza. Pertanto, il Rapporto in oggetto indica il mantenimento e la riqualificazione dei servizi territoriali e commerciali, secondo forme coerenti con le peculiarità rurali e montane, come un investimento essenziale per il rilancio sociale, ambientale ed economico di tali territori. Secondo il Rapporto “L’Italia del disagio insediativo” nella competitività territoriale non esistono aree “sciaguratamente deboli” ma soltanto aree non messe in condizione di competere e dunque costrette a tenere “sotterrati i propri talenti”. Il Rapporto indica, quindi, quali possono essere i valori competitivi sui quali questi comuni marginali possono investire cercando di trasformare un problema in opportunità.
Si tratta di elementi di importanza strategica quali:
1. la biodiversità, che vede l’Italia fra i paesi più ricchi nel patrimonio floristico e faunistico europeo; circa 2.300.000 ettari di superficie che costituiscono il sistema delle aree naturali protette, oltre alle riserve marine;
3. una vasta parte dei beni culturali nazionali costituita da: chiese, conventi, centri storici, rocche e castelli, dimore storiche, giardini oltre ad archivi e biblioteche.
A questi “plus competitivi” vanno poi aggiunti: una notevole capacità gastronomica, un vasto patrimonio di tradizioni, una diffusa capacità creativa di artigianato artistico e di piccola e media impresa, insomma un valore aggiunto culturale. Nel Rapporto risulta che l’Umbria è interessata con diversi comuni appartenenti ai gruppi di disagio insediativo sia per la provincia di Perugia che per la provincia di Terni. Nella provincia di Terni, tra gli altri, Alviano, Guardea, San Venanzo, Parrano sono classificati tra quelli a maggior disagio.
Gli indici e le caratteristiche che il Rapporto ha preso in esame lasciano presumere che Allerona sarebbe stata ricompresa tra questi comuni se non vi fosse l’insediamento abitativo dello Scalo che, analogamente, diventa incremento anche per il comune di Castel Viscardo. Ma questa non inclusione tra i comuni marginali non deve esimere dalla valutazione che il piccolo centro di Allerona capoluogo soffre degli stessi sintomi e delle stesse difficoltà che riguardano i 2.830 comuni esaminati dal Rapporto e che sarà necessario individuare per il futuro una strategia di sviluppo che consenta al territorio di valorizzare i propri tesori nascosti ed incrementare quindi la domanda di turismo e di insediamento abitativo, da cui ne consegue e si giustifica anche il mantenimento delle attività commerciali e dei servizi essenziali.

Le terrecotte di Giuseppe Bernardini al Museo di Villa Giulia

di Giuseppe Della Fina

Il Museo Etrusco di Villa Giulia a Roma ospita nel proprio giardino un modello al vero di un tempio etrusco-italico. E’ una ricostruzione di notevole interesse, nel 1908, Giuseppe Angelo Colini, un archeologo molto noto agli inizi del Novecento, che aveva ottenuto da un anno la direzione del museo, scriveva: “deve senza dubbio a questo tempietto attribuirsi una certa importanza perché dimostra agli studiosi in modo chiaro e preciso come tali decorazioni erano usate. Ormai esso rappresenta un monumento che i visitatori e gli studiosi ammirano e studiano con profitto”. Chi lo aveva voluto? Chi lo progettò e chi lo realizzò? Nella storia dell’edificio incontriamo personaggi di primo piano dell’archeologia italiana dell’epoca e, singolarmente, ma sino a un certo punto come vedremo, maestranze dell’orvietano. Il tempio e, per la verità, lo stesso museo, fu voluto da Felice Barnabei, direttore generale delle antichità e belle arti e fra i primi difensori e valorizzatori del patrimonio archeologico dello Stato italiano, che era sorto da pochi decenni. Il progettista fu una singolare figura di archeologo, di topografo, ma anche di pittore e di scultore (lavorò in questa veste, fra l’altro, all’Altare della Patria): il conte Adolfo Cozza di origine orvietana e amico fraterno di un altro nobile locale, il conte Eugenio Faina, che, in quegli anni, aveva già riunito un’importante raccolta archeologica. I due erano stati compagni di scuola nel Collegio della Sapienza a Perugia e garibaldini insieme nella terza guerra d’Indipendenza; l’amicizia non era venuta meno neanche negli anni successivi, in cui Eugenio aveva iniziato una brillante carriera politica, mentre Adolfo, per una serie di investimenti sbagliati, si era trovato a fronteggiare una situazione professionale ed economica difficile. L’incarico a Cozza dovrebbe essere stato affidato nel 1889; è giunto sino a noi il modellino dettagliatissimo in scala 1:10, che utilizzò per realizzare il modello al vero: è conservato in un altro museo di Roma, nel Museo della Civiltà Romana. Il lavoro, costato molto poco, era già completato nel 1891. A chi Adolfo Cozza affidò la realizzazione della ricca decorazione in terracotta? Ad un imprenditore, che conosceva e di cui apprezzava le capacità: Giuseppe Bernardini di Allerona. Dalla sua bottega uscirono le antefisse, le lastre fittili, insomma l’intera decorazione in terracotta, realizzata secondo lo stile etrusco-italico, che ornava ed orna l’edificio. Le matrici di gesso e i loro modelli di legno sono tuttora conservati nei magazzini di Villa Giulia: segno che gli si attribuì subito una certa importanza. Il tempio ricostruito, che si basava per caratteristiche e dimensioni su un tempio di Alatri e su quello dello Scasato di Civita Castellana (l’antica Falerii) riportati alla luce pochi anni prima, è stato restaurato in più occasioni: l’ultima nel 1975 sotto la direzione di Lucos Cozza, nipote di chi lo aveva progettato.

L’autore dell’articolo è Docente di Etruscologia e Archeologia Italica all’Universita de L’Aquila, Direttore Scientifico del Museo Archeologico Claudio Faina ad Orvieto e redattore all’Enciclopedia Italiana.

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