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Il gesuita Jupítero Lascayola e il mio funerale (ovvero: sogno d'un dí d'estate)

di Gianpiero Pelegi

Una notte calorosa d’agosto sognai che ero morto (continuate a leggere! I sogni in cui appare la morte hanno un significato di trasformazione e di rinnovamento, che, con un po’ di fortuna, può riguardare anche il nostro paese). Ma torniamo al sogno. Ero deceduto d’estate, non so bene per quali cause, e il mio funerale aveva luogo d’agosto, eccetto la parte finale che, per una specie di pena del “contrappasso stagionale”, si svolgeva d’inverno, credo in febbraio. La mia scomparsa era stata annunciata da Il Corriere dell’Umbria e da un comunicato dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci, con lo stesso titolo: “È morto ‘l nipote del poro Ottorino”. Nell’occhiello aggiunsero: “’l bardasso contribuì al progresso degli alleronesi. Nel 1973 comprò, insieme al su nonno, un mangiadischi con il quale la popolazione usufruì, il 4 Novembre, festa delle FF.AA., di un’eccellente versione discografica de La Canzone del Piave e di Fratelli d’Italia”. Le Sorelle dell’Addolorata presero subito in mano la situazione e vollero organizzare le mie esequie. I miei amici, però, contrattaccarono e informarono l’Ambasciata spagnola della mia scomparsa. Come è noto gli spagnoli hanno un sentimento tragico della vita e della morte, e da Roma, in un paio d’ore, la Sede Diplomatica spedì in paese, ad occuparsi del caso, il Padre Jupítero Lascayola della Compagnia di Gesù, un omone con una voce potente da baritono, che si esprimeva in un italiano maccheronico. Il gesuita, in primo luogo, contrattò i servizi musicali della banda locale. Padre Jupítero, che era un nostalgico, riunì i musicanti e disse loro: “Io ve pago bene, de acordo? E voi dovete sonare alguna canzión de Franco!”. Un giovane clarinettista, rivolto agli altri componenti della banda, esclamò: “Eh regà, io nun sapevo che Franco oltre a venne la ciccia, componesse anche le marce pe’ la banda”. Mio zio, che si era disinteressatamente offerto, in mia memoria, per suonare la grancassa durante il funerale, aveva però ben capito la richiesta del religioso, e ribatté che le canzoni del generale Franco non facevano parte del repertorio bandistico alleronese. Un altro musicante, più interessato alla paga che al buon nome del complesso locale, propose: “Padre, noe sapemo a orecchio Stelle di Spagna, se pe’ voe va bene…”. Lo spagnolo non aveva mai ascoltato la canzone in questione, ma il fatto che nel titolo vi fosse il nome della patria lo rassicurò, e disse tuonando: “Alora, sonerete Stelle di Spagna por todo l’acompagno”. Mio zio andò su tutte le furie e inveì contro gli altri suonatori: “Ma madonna…, ‘sta canzone la sonavono ‘l poro Nino, ‘l babbo del morto, e Peppe, d’estate, e la gente ce ballava attorno, ma che (biip) (il biip è la censura che opero alla trascrizione integrale del sogno) c’entra co’ ‘n funerale”. Anche il Maestro Alimenti, indignatis-simo, strappò gli spartiti che aveva in mano e minacciò di abbandonare per sempre gli studi di direzione musicale. Ma gli altri musicanti concordarono che Stelle di Spagna era facile ed orecchiabile, e che era la musica adatta per le mie esequie. Subito dopo il Padre Lascayola volle conoscere il sacerdote del paese al quale le Sorelle dell’Addolorata avevano richiesto le onoranze funebri. Don Abbondio (così si chiamava il parroco nel mio sogno) aveva acconsentito di buon grado alla loro petizione, contento di poter ripetere l’omelia che pronunciò durante il funerale del mio babbo contro i miscredenti, e i reprobi tutti (morto compreso). Il gesuita, che incuteva certa soggezione, un po’ per la grossa mole, e un po’ per il vocione che aveva, incontrò Don Abbondio e tagliò corto: “La mesa la canto yo en onor de este compatriota. Usté, me ayuda a mi. De acordo?”. Don Abbondio assentì. Padre Jupítero aggiunse: “Inoltre usté se encarica de calmar a le donne de esta congregazión, de acordo? E si ce la fa, e si teniamo tempo, usté legge un poco de Vangelo, perché yo lego muy mal en italiano. De acordo?”. Don Abbondio, rassegnato, fece un gesto affermativo col capo. Il parroco calmò le Pie Donne e le convinse a partecipare attivamente al funerale. In chiesa Padre Jupítero officiò la messa. Lo spagnolo, però, parlava una lingua incomprensibile e quasi tutti fecero fatica a seguirlo nella liturgia. Rivolto ai fedeli affermò che nelle mie esequie “si sarebbe fatta la Pasqua prima della Domenica delle Palme”. Nessuno capì il senso delle sue parole. Ma così fu. Lascayola tenne una magistrale omelia prima di leggere un passo delle sacre scritture. Salì in cattedra e pronunciò una vera e propria lezione di filosofia. Ragionò sulla nostra espulsione dai luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, illustrò l’incertezza del futuro e aggiunse che l’unico posto abitabile era il presente, e che mutatis mutandis io ero morto perché il mio cuore non aveva potuto sopportare la cosiddetta “abitabilità del presente”. E immediatamente, passò ad elencare i motivi del mio decesso:

a- il degrado di Sottofosso, che egli stesso aveva potuto constatare. Il gesuita narrò con emozione che, appena arrivato in paese, aveva cercato un posto dove sedersi per contemplare il magnifico panorama, e che aveva dovuto fare una fila di un quarto d’ora per farsi consegnare, da una guardia comunale, un biglietto che dava diritto a un turno di dieci minuti di sosta sulle pubbliche panchine. Quando finalmente poté occuparne una, venne punto da ben quattro tafani che erano passati dal caldo del motore di una macchina da poco posteggiata alle sue spalle, alla sua robusta schiena.
b- il degrado del Giardinetto dei Caduti, dove, come aveva pubblicato Il Corriere dell’Umbria, mio nonno ed io contribuimmo al progresso del paese con l’acquisto (e posteriore uso) del famoso mangiadischi. Il Giardinetto, inveì Lascayola, era pieno di rifiuti, di cocci di bottiglia, e la vaschetta della piccola fontana veniva utilizzata come pattumiera. Per non parlare poi delle tre panchine: anche lì una guardia comunale, invece di insegnare l’educazione e le buone maniere alla popolazione, distribuiva dei biglietti che ne regolavano il turno di occupazione, con diritto di precedenza per (in questo ordine): i pensionati del paese, i numerosi zuzzurelloni (in pari numero a quello dei pensionati), e i villeggianti. Lascayola aggiunse ironico che due panchine erano all’ombra e un’altra al sole, proprio come nelle corride!
c- Le automobili e i motorini che, senza giustificati motivi, avevano occupato una parte del centro storico (Padre Jupítero si chiese ad alta voce: “Ma in este paese ci sono davero muchos disabili?”).
d- Il gesuita fece tremare la chiesa quando annunciò che il quarto mistero di Fatima mi aveva dato il colpo di grazia. Secondo il religioso i pastori portoghesi avrebbero predetto che la piazza Attilio Lupi sarebbe stata rimodernata utilizzando dei mattoni rossi.
e- Dulcis in fundo, Padre Jupítero giurò che anche la vendita di Figo al Real Madrid (ma questo punto era stato improvvisato dal Nostro, perché non sapeva più cosa dire) aveva contribuito alla mia scomparsa.

Ad un tratto, lo spagnolo si rese conto della situazione in cui s’era cacciato, e dato che aveva promesso a Don Abbondio di fargli leggere un brano del Vangelo, invitò il parroco, con modi assai bruschi, ad iniziarne la lettura. Don Abbondio aprì il Vangelo su San Matteo 7,13 e con voce impostata in falsetto (per non esser da meno del baritono), lesse: “Entrate per la porta stretta perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per esse”. I fedeli, sconvolti, si guardarono per scoprire con chi se la prendeva questa volta il sacerdote, ma nessuno riuscì a decifrare correttamente le sue parole criptate.
Finita la cerimonia religiosa, Padre Jupítero organizzò l’accompagno. Dispose che il carro funebre attendesse in piazza Attilio Lupi, e ordinò il primo turno di trasporto del feretro. In questo primo tratto affidò la bara a sei “vecchie glorie” della squadra di calcio locale, come doveroso omaggio alle mie due presenze nella suddetta formazione. Subito dopo il feretro, collocò in prima fila, forse per farsi perdonare l’intrusione nell’organizzazione del funerale, le Pie Donne, poi i miei familiari; subito dopo la bandiera tricolore dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci, seguita da quella rossa, un po’ scolorita, con un’enorme acca ricamata in nero, dell’Associazione Amici di Allerona; più indietro il resto della popolazione. Alla fine del corteo Lascayola dispose la banda, a cui teneva particolarmente d’occhio. Le Sorelle dell’Addolorata cercarono di intonare Mira il tuo popolo, ma Padre Jupítero le zittì con un gesto in aria della mano destra, degno del miglior Abbado. I musicanti, invece, quando lo spagnolo fece un cenno del capo, spettinandosi alla Muti, attaccarono subito Stelle di Spagna, e si partì. Appena fatti pochi metri, mi resi subito conto che qualcosa non funzionava. Mi sembrava, infatti, che la grancassa di mio zio e i piatti del buon Albino andassero fuori tempo. Si udiva un rumore sordo: Cloff, tlang, tingl che sembrava una versione rock de La fontana malata di Palazzeschi. Io dissi ad alta voce: “Non ce semo, ma che accompagno è questo! Richiamate subito ‘l Maestro Arturo Ferretti!”. Ma nessuno mi diede retta. Il rumore di piatti e di grancassa aumentava ad ogni passo della comitiva. Capii tardi, quando ormai eravamo sotto la Torre dell’orologio, che mio zio ed Albino (poveretti!) non c’entravano un bel niente con tutto quel fracasso. Mi spiego meglio. Come è noto noi alleronesi siamo nel Guinness dei tombini, cioè siamo il primo paese al mondo nel rapporto tombini per metro quadrato: ci sono i tombini dell’ENEL, i tombini del gas, i tombini delle fogne (quelli delle Fonderie Belli, quelli delle Fonderie Viterbo), e ve ne sono altri con scritte incomprensibili: UNI12365789. Insomma, con tombini solisti e accompagnamento di banda giungemmo in piazza Attilio Lupi. Lì la bara fu deposta nel carro funebre. Io avevo preparato da tempo un funerale laico e letterario; appena la vettura si mosse e imboccò Sottofosso, iniziai a recitare ad alta voce il celebre passo Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo de I Promessi Sposi. Sentii le Pie Donne mormorare: “Meno male che s’è sciacquato, perché era proprio insopportabile. E poe ‘st’accompagno… tra Manzoni davanti, e Stelle di Spagna dietro… è ‘n vero scandolo!”.
La strada cominciava a scendere, ed io pensavo che le automobili che vengono utilizzate nei cortei funebri sono ottime, le curve non si sentono e mi ero proposto, in caso di una rapida resurrezione, di comprarne una da usare con mia moglie, che tanto aveva sofferto di mal d’auto nelle numerose curve che collegano il nostro paese con il resto del mondo. Quando arrivammo in prossimità del cimitero, il carro funebre si fermò. Presero la bara in spalla Gigi Franzini e Paolo Gilibini (davanti), Aldino e Chicche (centro), Alessio e Giuseppe Zirilli (dietro). Padre Jupítero e Don Abbondio si diressero verso la cappella per le ultime orazioni. Io feci un’entrata trionfale, recitando lentamente I sepolcri del Foscolo (All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne/ confortate di pianto è forse il sonno…). Qualcuno disse ad alta voce: “Che gran palloso!” alludendo, chiaramente, al morto. Orbene, come ho spiegato all’inizio, il funerale si svolgeva d’estate, ma appena varcato il cancello d’ingresso del camposanto c’era la pena del “contrappasso stagionale” ad attendermi: cambiò il tempo, e all’improvviso fece un freddo da cani. Eravamo piombati in febbraio, e il vialetto centrale era completamente ghiacciato. I portatori avanzavano a passi lenti e misurati. Quando fummo vicini alla cappella, si avverarono le parole del Vangelo (“Entrate per la porta stretta…”), e tutti capirono a quale porta si era voluto riferire Don Abbondio. Alessio e Giuseppe Zirilli, infatti, scivolarono sul ghiaccio, caricarono con forza gli altri portatori scaraventandoli in avanti verso l’ingresso della cappella. La bara fu lanciata in alto, spinta dall’impulso generato dai quei due. Passammo velocemente davanti alla tomba del mio babbo che sussurrò: “Sciagurate, ma d’annate?”.
I due religiosi, che attendevano sull’uscio, ci guardarono spaventati; Padre Jupítero urlò in spagnolo (che traduco così): “Però, perbacco! Non ho mai visto sei persone portate da una bara!”). I miei amici, come in film comico, investirono i due sacerdoti, formando un groviglio inestricabile di gambe, braccia, paramenti sacri e liturgici. Il feretro colpì con violenza una colonna, si aprì ed io venni scaraventato all’indietro descrivendo una strana parabola. Durante il volo declamai i primi versi di Funere mersit acerbo del Carducci (O tu che dormi là su la fiorita/ collina tósca, e ti sta il padre a canto…). La folla che seguiva il corteo emise un ohhhh! di ammirazione alla vista di quella specie di razzo umano. Qualcuno disse esultante: “È mejjo del pallone de S. Anzano!”. Atterrai su una delle nuove tombe costruite per il rimodernamento del cimitero, e poi rotolai fino a raggiungere di nuovo il vialetto centrale. Con il viso sul pavimento arancione, e con un fil di voce, esclamai: “Regà, ma do’ m’ete portato: al camposanto o a le docce del Centro Commerciale d’Orvieto Scalo?”.
Mi svegliai all’improvviso. Ero disteso bocconi nel bagno di casa mia e osservavo, con occhi sgranati, il colore delle maioliche. Scopersi che era simile a quello delle piastrelle su cui avevo pronunciato le mie ultime parole. Il giorno dopo chiamai un muratore per farle sostituire.

La gestione del territorio

a cura di Franco Raimondo Barbabella

Abbiamo voluto simulare un forum sui problemi che si pongono quando si voglia affrontare di petto la questione più rilevante per le prospettive di sviluppo moderno di una determinata area nel contesto delle trasformazioni in atto, quella della gestione del territorio secondo criteri di qualità. Abbiamo perciò messo virtualmente intorno ad un tavolo tre architetti, due profondi conoscitori della storia e della realtà attuale del territorio orvietano, Pierpaolo Mattioni e Alberto Satolli, ed uno, Paolo R. Borghi, di origine alleronese ma vissuto ed operante in altro ambito territoriale. Abbiamo rivolto loro tre domande, dopo un’identica premessa. Ecco il risultato di questo confronto a distanza.

Premessa
Heimat ha scelto un luogo preciso, Allerona, come punto privilegiato di osservazione di questo nostro mondo che cambia. Naturalmente, Allerona non è solo una metafora, è un luogo fisico, un luogo di vita. Si tratta dunque di un punto d’osservazione nient’affatto disinteressato: infatti, da una parte non vogliamo perdere le nostre radici, dall’altra non vogliamo sentirci ed essere estranei alle dinamiche del nostro tempo. Il nostro assunto è che la globalizzazione permette di rovesciare i tradizionali rapporti gerarchici tra territori fondati su criteri di quantità, a patto che però si ragioni e si agisca in termini di sistemi a qualità elevata e che, su queste basi, si tenda a costruire rapporti di rete fra realtà storicamente e potenzialmente integrabili. Lo sguardo perciò si allarga a tutto il nostro territorio, di cui Orvieto è ovviamente il punto più rilevante. Il nostro obiettivo è fornire contributi di idee per una gestione del territorio secondo criteri di qualità in una logica di sistema per sviluppare rapporti di rete via via più ampi e complessi con i territori vicini. Per cominciare, allora, ci sembra che si debba tentare di fare il punto sulla situazione di fatto.

A vostro avviso, oggi si sta già camminando sulla via di una gestione di qualità in una logica di sistema o ne siamo ancora lontani? E, se ne siamo lontani, quale ne è la ragione principale?

Satolli
Quale che sia il significato che si vuol dare ad una futura o futuribile “gestione di qualità” esso non può che scaturire dalla valutazione dei fenomeni avvenuti (e avvengono) sul territorio e che riflettono tutto il malessere della “società del benessere” che li ha provocati (e li provoca). Da un punto di vista quantitativo/statistico si deve ricordare che quarant’anni fa in Italia si calcola che vi fossero due/tre persone per stanza mentre oggi risultano quasi tre stanze a testa (per lo più in proprietà e senza mettere in conto quelle “non occupate” e quelle abusive), mentre il numero degli alloggi supera ormai quello dei nuclei familiari, anche se nel frattempo questi ultimi sono triplicati. Ciò significa, per semplificare, che dalla legittima aspirazione alla casa – che per i più deboli non è stata e non potrà essere soddisfatta con il sistema vigente – si sta passando alla casa usa-e-getta, come le auto e le penne biro. Un esempio familiare della suddetta “modernizzazione” nell’area orvietana, è la visione di quella valle del Paglia dove scorreva il fiume e dove ora scorre un fiume di auto visibile anche di notte come un magma incandescente, fumigante e rumoroso, che straripa programmaticamente senza ostacoli oltre il casello; di quella valle non è cambiata soltanto la percezione, ma lo stesso significato del paesaggio, “snaturato” dall’urbanizzazione al punto che, affievolendosi il senso della vita collettiva nella città dilaniata, sfumano anche le differenze qualitative tra centro storico e periferia. Quanto alla “logica di sistema”, se è stato possibile il verificarsi – tra la metà degli anni ’70 e gli anni ’80 – che, nel momento in cui il Comune di Orvieto “limitava” l’edificabilità al doppio di quella necessaria a coprire il fabbisogno effettivo, il Comune di Porano quintuplicava contro ogni norma statale e regionale la cubatura del paese antico riducendo la politica urbanistica a concorrenza di mercato, si può ipotizzare ragionevolmente che la pianificazione possa estendersi, come naturalmente dovrebbe, oltre gli angusti limiti comunali?
L’industria (o l’artigianato) dell’edilizia – che con termine ora desueto si chiamava speculazione – non bada certamente ai confini amministrativi come spesso fanno (nel troppo lungo o troppo breve intervallo del loro mandato) gli amministratori locali, tanto più che, prendendo a modello l’industria automobilistica, per risolvere il problema della sovrapproduzione, può contare su un fondo-cassaintegrazione costituito in questo caso dal plusvalore del territorio edificabile.

Mattioni
Si sta affermando, recentemente, la certificazione di qualità, verso oggetti, merci, prodotti in genere, come procedimenti, enti o servizi. Il procedimento della certificazione vuole garantire la qualità, laddove la legge di mercato non appare sufficiente. La qualità viene garantita attraverso la certificazione d’origine: nel sistema artigianale si verifica di persona e direttamente, nella società moderna ci dobbiamo affidare ad un professionista che verifichi per conto nostro. Condizione essenziale è la assoluta garanzia di affidabilità del certificatore, come il “soggetto certificato” non può giocare a barare: sarebbe inutile procedere. Ne consegue una naturale attitudine alla rivalutazione del concetto di “rigore”: non possiamo ragionare di qualità se non con intendimenti rigorosi. Possiamo provare ad applicare la procedura della certificazione di qualità ad una città o ad un territorio, a patto di essere in grado di potersi sottoporre a tale procedimento. La riconoscibilità dell’origine determina trasparenza nei programmi e rintracciabilità delle procedure decisionali fino agli effetti che ne scaturiscono.
Oggi possiamo affermare che nel nostro Paese, e anche nelle nostre zone, non si è operato, salvo ammirevoli e tanto più encomiabili eccezioni, per ricercare presupposti di qualità, con i risultati che sono sotto i nostri occhi. Non è facile che una comunità decida di anteporre l’obiettivo della qualità, che può risultare meno appagante rispetto al risultato immediato. Il territorio assorbe e restituisce, come uno specchio, tutte le contraddizioni e le culture di chi l’abita.

Borghi
Debbo premettere che non conosco i programmi gestionali in corso d’attuazione o in progetto per l’insieme territoriale in cui si colloca Allerona. Il mio modesto contributo, per un’analisi della situazione oggi in atto, è pertanto necessariamente riferito a quello che io credo sia opportuno attivare per incominciare a costruire un “sistema” di territori che siano in grado di correlarsi per costruire programmi gestionali comuni capaci di perseguire precisi obiettivi scelti “ad hoc”, di livello territoriale tale da superare gli attuali limiti amministrativi secondo appunto una logica di sistema. Secondo il principio dei sistemi occorre quindi costruire un insieme che organizzi persone, territori, forze imprenditoriali e culturali, esperienze, ecc., in un circuito informativo che sia capace di esprimere una decisione che determina un’azione in grado di modificare il livello reale da cui trarre a sua volta un insieme d’informazioni (livello apparente) necessarie per formare una successiva decisione che si avvalga delle esperienze acquisite. Un circuito informativo di questo tipo è un circuito chiuso con retroazione, in cui la crescita dell’informazione è condizionata dall’obiettivo del sistema.
Il successo di una gestione di qualità del territorio è fondato, sempre nella logica dei sistemi, sulla capacità di costruire un circuito con retroazione del tipo suddetto. Per contro, l’insuccesso è determinato da un sistema informativo che ha un obiettivo formato al di fuori del sistema considerato o è senza un preciso obiettivo, perciò la crescita dell’informazione è continua, ma non è in grado di esprimere decisioni perché non sa trarre dal livello reale informazioni funzionali.

In ogni caso, quali sono, dal vostro punto di vista, i punti di forza e quali i punti di debolezza per andare verso o per accelerare quella direzione?

Borghi
Detto sinteticamente, ritengo che i punti di forza sono quelli che scaturiscono in termini decisionali dalla capacità interna di darsi degli obiettivi territoriali d’adeguato livello. Perché ciò avvenga occorre soprattutto una grande onestà intellettuale degli organi decisionali, per esprimere quel tipo di progettualità induttiva (indotta dal sistema informativo) che persegua coerentemente l’obiettivo enunciato e per il quale essi hanno raccolto il consenso democratico.
I punti di debolezza sono, per contro, quelli che derivano dalla produzione di progettualità dedotta da modelli ideali di riferimento ideologico. Ciò presuppone l’abbandono d’ogni categoria logica che predefinita quello che è giusto e quello che è sbagliato, quello che è buono e quello che è cattivo, e prenda invece in considerazione la coerenza tra informazioni e decisioni.

Mattioni
Un punto di forza risiede nel fatto che le regioni dell’Italia Centrale sono riconosciute come uno dei territori di origine della forma della città occidentale, in un processo miracoloso durato secoli che ha reso possibile un modello di equilibrio umano ed ecologico unanimemente riconosciuto. Il modello si fonda su una forte interrelazione e funzionalità tra la Città, veicolo e codice di comunicazione fino ad assumere un valore simbolico alla scala continentale, e il suo territorio (Stato) “interno”, più o meno vasto, ma strettamente relazionato alla Città.
Perdipiù la riconoscibilità dei territori dell’Italia centrale è strettamente connessa con il complesso strutturato di città, di piccola dimensione ma di grande significato, che formano ciascuna una individualità particolare, ma anche un forte sistema integrato: una rete.
Il punto di debolezza risiede, paradossalmente, nella scarsa consapevolezza degli stessi punti di forza: scarsa consapevolezza da parte dei cittadini e dunque degli amministratori locali.
All’orgoglio di rappresentare un modello, si è sostituita l’accettazione della subalternità ai sistemi urbani “forti”, insieme ad un tentativo spesso goffo di modernizzazione in una gelosa diffidenza campanilistica delle proprie presunte tradizioni. Tutto il contrario delle ragioni profonde che hanno consentito la fondazione originaria. Ma c’è dell’altro: il processo d’accentramento politico e burocratico dello Stato Moderno ha vanificato le opportunità locali; il vecchio modello non è stato sostituito da nulla, con il risultato che è difficile progettare il proprio futuro recuperando le opportunità locali, che spesso sono dissolte. La decadenza ha comportato la perdita della “sacralità dell’ambiente e del territorio” nella cultura quotidiana. La sacralità non prevede distinzioni tra pubblico e privato; tutto concorre alla definizione di una sola identità.

Satolli
Assumere la storia di ciascun territorio, la sua identità storica, come valore e come risorsa non monetizzabile è l’unica alternativa per evitarne la svendita e il presupposto essenziale non tanto di una salvaguardia differenziata, da tutti ambiguamente invocata, ma della sua possibile salvezza complessiva. E’ soltanto patetico e non certo risolutivo che architetti e urbanisti, in fondo ottimisti, come Gregotti, Cervellati, De Lucia, Benevolo, ecc. denuncino la degenerazione in atto nella gestione del territorio nei loro ultimi libri semi-autobiografici.
Tenendo conto che al problema della casa, in parte risolto almeno quantitativamente, si sommano quelli della città e dell’ambiente, diventa prioritaria, oltre al restauro e al recupero dei centri storici, la ristrutturazione urbanistica delle periferie; in una parola, il recupero dell’esistente deve essere anteposto alla proliferazione di seconde e terze case costruite praticamente dovunque, se si aspira ad una riconciliazione dell’uomo con il suo ambiente.

Infine, su quali basi progettuali e con quali procedure è possibile, oltre che auspicabile, sviluppare rapporti di rete con i territori vicini, a partire proprio da una sapiente gestione del territorio?

Mattioni
Più che sviluppare, il problema di oggi è quello di recuperare relazioni di rete, ormai in via d’estinzione. La ricostituzione di pratiche di rete fondate su programmi concreti da definire di volta in volta, rappresenta l’unica alternativa ad un destino di definitiva perdita di ruolo e degenerazione campanilistica. La qualità di una politica territoriale è il primo ambito operativo su cui si può impostare un progetto di riqualificazione e valorizzazione locale. Un interessante approccio propositivo potrebbe consistere nel lanciare alle città una “sfida” pacifica nello sperimentare forme innovative volte alla introduzione di strumenti di pianificazione testati sull’obiettivo della riqualificazione e dell’innovazione di qualità, e avviare nel concreto una riflessione sulle esperienze in corso. Tempo fa, la benemerita “Associazione delle città del vino” provò ad avviare una sorta di Carta per una gestione accorta del territorio delle città associate: era una interessante proposta che però in concreto poco ha prodotto. Tra il dire e il fare …

Satolli
Orvieto deve la sua riconoscibilità (e la considerazione che ne consegue a livello internazionale) al fatto che è una città drasticamente limitata da una rupe e, ciò nonostante, contiene un “monumento” eccezionale come il duomo. Tutto fu costruito grazie al contado e per portare a compimento il duomo, con una fedeltà quasi incredibile al progetto originario, furono necessari trecento anni. Appena finito vi fu addirittura la determinazione di rinnovarlo completamente all’interno. Ai nostri tempi, in trent’anni, a discapito della campagna si è edificata una periferia informe più estesa della città storica dove l’anonimato dell’edilizia è il difetto minore. Una buona parte dell’economia orvietana (dalle attività legate al turismo o alle leggi speciali) ruota tuttora intorno al duomo e alla città sulla rupe ed è grazie al binomio felicemente risolto di natura e architettura che gli stessi orvietani si sentono ancora cittadini del mondo. E’ dignitoso per l’uomo contemporaneo vivere solo di rendita sfruttando e sperperando il patrimonio ereditato? Si può trarre qualche insegnamento dal passato?
Ma, soprattutto, si può assumere finalmente il limite come risorsa?

Borghi
A mio avviso la base progettuale che occorre considerare è quella che riesca a identificare un insieme territoriale e socioeconomico capace di esprimere una globalità d’interessi, tenendo conto che la crescita si ha sempre per differenze in grado di scambiarsi informazioni. Un siffatto territorio deve essere disomogeneo e variegato, capace cioè di rappresentare un modello che riproduca la complessità della realtà. Non deve essere formato da un insieme di aree omogenee ma di aree disomogenee e integrabili, ognuna delle quali sia in grado di esprimere, per forza interna, un preciso ruolo riconoscibile come punto nodale della struttura.
Una struttura territoriale siffatta è capace di reagire elasticamente alle sollecitazioni che i processi di globalizzazione producono sulla struttura. Il modello strutturale reso coeso, come sopra detto, da un circuito informativo con retroazione potrà crescere avvalendosi dell’esperienza fatta nel perseguire obiettivi precisi e limitati, e sarà in grado di costruire “una città porosa” di nuovo impianto basata su una rete informativa che esprimerà una collegialità decisionale d’adeguato livello di conoscenza.In sostanza, non si tratta di ridisegnare la realtà esistente, ma di dare un contributo fondamentale al miglioramento della gestione del territorio attraverso una modellistica strutturale formale che sia in grado di rappresentare il modello sperimentale per la verifica delle teorizzazioni progettuali.

Alcune considerazioni
Ringrazio i nostri interlocutori, sia per aver accettato di sottoporsi al nostro “gioco” intellettuale, sia per gli stimoli, le valutazioni e le proposte, che ci hanno fornito.
Al di là delle specifiche posizioni, sembra di poter dire che tutte le risposte propongono lo stesso messaggio: non è più il tempo di pensare in termini di un futuro qualsiasi, perché così in realtà si perde la stessa possibilità di futuro. Il nostro è ormai il tempo del coraggio, il tempo delle scelte non più scontate.
Emergono allora alcune idee-forza:
• Il patrimonio storico e naturale, inteso come il sistema delle interrelazioni di città e campagna da noi ancora così evidente, va assunto come risorsa, qualcosa che non è solo da conservare, ma da recuperare e da valorizzare. Il concetto di limite non è un ostacolo allo sviluppo, ma al contrario, il suo stesso presupposto.
• Il contenimento dell’espansione ed il parallelo primato delle operazioni di recupero tornano ad essere perciò i perni di una politica di gestione del territorio che voglia connotarsi per saggezza e lungimiranza. Come è stato dimostrato da altre esperienze, la cura dell’ambiente naturale ed urbano rappresenta il fondamento di uno sviluppo di qualità, cioè, se si vuole, un forte valore aggiunto.
• Questo richiede di assumere ad oggetto delle strategie di governo non pezzi e settori, tantomeno interessi particolari, ma l’insieme del territorio inteso come sistema integrato. La “città porosa”, cioè il tessuto di città e paesi interconnessi da funzioni specializzate, può essere la strategia vincente di un territorio nell’epoca della globalizzazione, come una volta lo fu l’unificazione gerarchica intorno alle città. L’assunto è che le differenze fanno ricchezza, a patto che siano legate fra loro da una politica complessiva, cioè fondata su obiettivi generali chiari, condivisi e valutabili in progress nei loro effetti.
• A sua volta, tutto ciò postula una classe dirigente che scelga consapevolmente, e dunque secondo un percorso trasparente di tipo dialogico, le strategie della qualità nella gestione delle politiche territoriali, con tutte le sue conseguenze, sia sul piano delle scelte che delle procedure e del loro controllo.
Si potrebbe affermare che queste idee sono sì condivisibili, ma astratte e scarsamente praticabili. A questo proposito, conviene ripetere che nessuna concretezza è tale se non migliora la vita e che senza idee si producono solo miserie. In realtà non si può non ammettere che abbiamo assolutamente bisogno di politiche territoriali fortemente coordinate, di un vero e proprio progetto, con scelte prioritarie, obiettivi precisi, procedure di gestione chiare ed efficaci, accompagnate da una diffusa e costante rimotivazione della responsabilità civica.
E allora, che c’è di più realistico oggi di un progetto politico che abbia come obiettivo principale la costruzione della “città porosa”? Si tratta di rovesciare il concetto tradizionale di città come concentrato urbano ed immaginarne uno nuovo di città diffusa, i cui quartieri e le cui funzioni sono gli agglomerati storicamente consolidati e il cui tessuto connettivo sono le campagne e i boschi, i fiumi e i torrenti, le colline e le montagne. Questo obiettivo, qualora fosse assunto consapevolmente ed esplicitamente, permetterebbe ad esempio di reimpostare la rete delle infrastrutture e dei servizi secondo criteri di ottimizzazione sia degli investimenti che della resa sociale, consentirebbe di concentrare gli sforzi sul recupero funzionale, spingerebbe verso investimenti più selezionati e qualificati, permetterebbe infine di superare le inefficienze dell’attuale organizzazione istituzionale. Insomma, se non vogliamo essere risucchiati nei processi inevitabilmente livellanti della gobalizzazione o, all’opposto, se non vogliamo cadere in un povero e cadente localismo, siamo obbligati a pensare ed agire in fretta secondo logiche di sistema integrato. Solo così peraltro potremo confrontarci con gli altri territori, rompere rapporti gerarchici bloccanti, uscire dalla cultura della marginalità e generare quei circuiti virtuosi che le continue scomposizioni e ricomposizioni in atto rendono finalmente possibili.

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