Archivi per la categoria ‘heimat 2001/1’

Cosa Nostra

di Paolo Borri

Dire che sono nato ad Orvieto è affermare un semplice dato anagrafico trascritto sulla patente e sulla carta d’identità. Mia madre, giovane maestrina, aveva deciso di lasciare momentaneamente Allerona per partorire al riparo della protezione della casa paterna. Erano anni di guerra, anni duri e difficili. Solo dopo poche decine di giorni rientrai al Paese.

Una strada bianca, polverosa; la massicciata emergente a schiena d’asino; una salita che affatica verso il verde. Un piccolo vecchio “postale” che sbuffa stracolmo di gente. Alcuni uomini sono appesi al predellino, alcuni giacciono comodamente sui parafanghi, c’è chi si è appollaiato sul tetto. Il viaggio per Allerona è ancora un’avventura. Bisogna fermarsi alla fontana per riempire un radiatore bollente. Aldo Lupi si guarda intorno con aria sorniona, la sua macchina, nonostante tutto funziona: è quasi un miracolo. La sosta alla stazione è straziante, si aspetta la coincidenza con l’accellerato ed il sacco della posta. Gli uomini scendono a fare un bicchiere. E poi, finalmente, si riprende una marcia lenta ed incerta; la frana sopra la cantina sembra un passo invalicabile, i pini di Campitelli, il Poggio di San Lorenzo, ed infine l’ultimo strappo, faticoso fino allo spasimo. Prima delle case popolari una frotta di bambini ci insegue attaccandosi alla scaletta che scende sul retro.

Esco nel sole una domenica mattina, mi sono lavato nel lavabo di coccio sul treppiede di ferro battuto; ad Allerona manca l’acqua corrente nelle case ma è un paese pulito. Giorgio spazza accuratamente le pietre delle antiche vie e raccoglie i rifiuti delle case. Faccio un salto al “Purgatorio” e gioco una partita a ping-pong. Don Barzi ci inquadra tutti per la Messa. Durante la predica sgattaioliamo verso il terrazzo dietro la sagrestia. Si fuma una sigaretta in dieci. Pomeriggio afoso d’estate. Una piccola banda di ragazzini si avvia verso il macchietto del Pievano. Umbertino e Velenino corrono nella polvere partendo dal Ciuchi. Si fuma una mezza “Aurora” masticando un po’ di carta paglia per truccare il fiato. Due caramelle di menta comprate dall’Elide dovrebbero preservarci dagli scapaccioni paterni. Scapaccioni che arrivano egualmente quando alla sera, al Dopolavoro, allento completamente la chiavetta del mandolino e della chitarra di Sisto e Toto che si stanno per presentare alla ribalta.

La strada è ormai asfaltata. Io e Mauro siamo dotati anche di una Lambretta carenata, sia pure di terza mano. L’estate è allegra, la nostra compagnia è numerosa. Si organizzano gite alla Villa e a San Casciano. La sera si balla in piazza. Sboccia qualche amore innocente che non fa scandalo. Scandalo che invece scoppia per una ragazzata. E’ la notte brava in cui io, Ghighi, Ippolito e…un noto ed autorevole deputato, mettiamo a soqquadro il paese. Vasi spostati, panni stesi trasferiti su altri fili, panchine occultate. La cosa, con gli occhi di adesso, ci fa tenerezza. In quel tempo ricevetti una grossa lavata di capo da mio padre. L’unica a consolarmi fu la signora Agnese che mi trattava come un figlio viziato.

Sera dolce di un settembre regale. La porpora colora i boschi fino all’orizzonte. Laggiù stagliato nel cielo: l’albero del “luparo”. Alla casetta delle guardie, davanti al fuoco cantiamo: Coriolano, Cencio, zio Goffredo, zio Franco, Ansano, Pietro…Non ci sono state bottiglie di troppo, solo quelle giuste. Mi affaccio verso la Villa respirando la vita. Abbraccio mio padre sentendomi doppiamente suo figlio.

Pomeriggio invernale, vento e pioggia finissima. Accompagno al cimitero un vecchio amico. Cammino fra i viottoli scambiando baci e strette di mano. L’impressione è grande. Riconosco più gente quaggiù che fra le case sul poggio. Malinconia senza fine. Ma rientrando tra quelle mura familiari qualcuno mi saluta chiamandomi “Paoletto”. Allerona è ancora il mio Paese.

(da Il Comune Nuovo)

Chi è Federico Brook

di Luigi Malerba

Qualcuno ha detto che nell’arte le fissazioni contano più delle idee. Federico Brook ha evidentemente un’idea fissa. Dopo un periodo di sculture spaziali, di planetari metallici, ha tenuto ancora lo sguardo rivolto verso l’alto, ma ha cercato di circoscrivere le sue immagini, di dar loro una forma più vicina e concreta. Ma nel momento in cui depone le proprie concretezze nelle nuvole forse abbiamo carpito il paradosso profondo della sua scultura, apparentemente così felice, aerea e rassicurante. Che cosa c’è di meno concreto, di più mobile e volatile delle nuvole? Eppure il marmo e il bronzo usati dallo scultore non tradiscono la natura aerea del soggetto, anzi la esaltano e questo è uno dei miracoli (o dei paradossi) che rendono queste opere così magiche e inquietanti. Al punto che sembra legittimo un sospetto estremo: che con le nuvole lo scultore abbia voluto darci una rappresentazione ironica (ironica?) della inconsistenza e della futilità del mondo e degli umani che lo abitano?
Siamo abituati a leggere nelle nuvole un vasto repertorio di figure: cavalli, draghi, alberi, angeli, uccelli, carrozze. Non si finisce mai di leggere nel libro del cielo. Con il marmo e il metallo Federico Brook è riuscito a dilatare la nostra immaginazione, a farci sognare, a compiere uno dei miracoli che si rinnovano ogni volta che ci troviamo di fronte alle arcane manifestazioni dell’arte.

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