Archivi per la categoria ‘heimat 2001/1’

Mi riguarda!

di Fabiola Di Loreto

Sin dal primo numero della rivista Heimat una delle volontà espresse è stata quella di affidare agli autori degli articoli un tema su cui riflettere, affinché proponessero idee e contributi per il nostro territorio, con un occhio attento a ciò che avviene fuori dal nostro distretto e con la precisa convinzione che la “globalizzazione” può facilmente coniugarsi con il “localismo” solo in una logica di integrazione, scambio e valorizzazione delle tipicità e delle diversità.
Il filo conduttore tra tutti i temi finora trattati, mi è parso, pertanto, essere il “territorio”.
Come svilupparlo, farlo crescere, conservarne le caratteristiche, utilizzarne le peculiarità e soprattutto rispettarne le tradizioni. In tal senso, propongo nuovamente una riflessione sul tema della valorizzazione del nostro territorio, questa volta però con meno analisi dei dati e con un po’ più di “cuore”. Lo studio promosso da Legambiente e Confcommercio sui Comuni marginali, tema che ho trattato nel precedente numero di Heimat, è stato oggetto di numerose riflessioni da parte di attenti osservatori di tali fenomeni che sono stati ampiamente riportati dalla stampa nazionale. Senza tornare sull’analisi, riprendo solo un aspetto del problema, che peraltro è emerso anche in un servizio del TG 3 regionale dell’Umbria: l’obiettivo di quanti attentamente si sono soffermati sui risultati dello studio è quello di proporre a livello nazionale un riconoscimento di “terre marginali” che possa poi tradursi in conseguenti aiuti.
Allora, mi viene naturale pensare che per Allerona oltre il danno ci potrebbe essere anche la beffa! Non solo l’agglomerato urbano di Allerona Scalo (con tutti i suoi noti problemi di essere diviso tra due comuni) non consente, infatti, al piccolo capoluogo di essere ricompreso tra questi comuni marginali, ma nel caso in cui venissero attuate normative di intervento per consentire lo sviluppo di questi territori il nostro Paese non potrebbe beneficiarne.
Pertanto, una riflessione fra tutte quelle possibili: cerchiamo tutti insieme di trovare un modo per valorizzare seriamente il nostro territorio prima che sia troppo tardi.
Ho visto questo nostro piccolo paese di Allerona cambiare molto negli ultimi venti anni, ma non ho colto un cambiamento positivo. Forse è mancata una coscienza collettiva, un’idea comune, la consapevolezza generale di dove andare. Ho visto famiglie migliorare il loro tenore di vita, ho visto ragazzi crescere con molte più possibilità delle generazioni precedenti, ho visto svilupparsi (forse un po’ troppo, ma soprattutto male) l’edilizia abitativa, ma ho visto anche un paese perdere le sue abitudini e le sue tradizioni migliori. Ho visto per la prima volta, quest’anno, Allerona Scalo (il paese che ha avuto la maggiore crescita nel comprensorio) deserta nelle sere d’estate. Un paese dormitorio. Ho visto il pregevole centro storico del capoluogo abbandonato. Ho visto come un paese può crescere e morire al tempo stesso. Sono sicura che molto si può ancora fare ma credo anche che prima occorra capire. Dove stiamo andando, cosa vogliamo che diventi questo posto, quale tipo di crescita desideriamo che avvenga, quale cambiamento vogliamo imprimere. Poiché non credo che sia un problema politico, mi rifiuto di pensare che non sia possibile interrogarci e mettere in discussione un cambiamento. E in primo luogo invito a un confronto tutti coloro che come me (e forse insieme a me) hanno condiviso in passato preoccupazioni, hanno ragionato, hanno affrontato discorsi su come ci sarebbe piaciuto che fosse il nostro paese. Non trovo nulla di tutto ciò che pensavamo allora e mi domando oggi: da chi dipende se non da noi? Perché non creare le condizioni per un dialogo che ci aiuti a capire, che ci consenta di migliorare, di crescere e di realizzare un cambiamento più consapevole. Chi può concepire un paese dove il cimitero è pavimentato (e già questo è per così dire anomalo) con lo stesso materiale che viene usato per i marciapiedi delle vie centrali del paese stesso? A chi giova, in questo contesto, non aprirsi al confronto? A chi serve tornare nel proprio paese a parlare solo durante i periodi di campagna elettorale e poi scomparire fino alle elezioni successive senza farsi più sentire dai propri elettori, che so, almeno per dirci se il ponte della ferrovia sarà un giorno allargato oppure no! Ripeto, per me non è una questione politica. Semmai potrebbe essere una questione di gusti, ma è soprattutto la voglia sincera di chi crede che le cose possano cambiare sempre e con il contributo di tutti; che il sapere di pochi non è la crescita di molti. E questa sincera riflessione la faccio apertamente, senza nascondermi (caro Santosano, credo che tu abbia proprio ragione) con quella preoccupante e pericolosa abitudine di chi si cela dietro lettere anonime. Mettere in discussione l’esistente è un percorso sempre difficile, a volte fa soffrire ma consente di non morire dentro e significa anche non farsi vincere dagli eventi. Credere che sia possibile cambiare vuol dire credere nel valore delle diversità che solo dopo un confronto possono trovare il modo per coesistere ed arricchirsi reciprocamente. Vuol dire entrare nei processi e non rimanerne schiacciati. Vuol dire esserci e non stare a guardare. Vuol dire poter esprimere la propria opinione. Heimat è tutto ciò; è un esempio di vivacità e di coraggio, di voglia di dire e di capire, di dialogare e contribuire con idee, di cambiare, di voltare pagina, di aprire una finestra su questo meraviglioso territorio. Heimat è il luogo che mancava da tempo, è il punto di incontro e di espressione che ci aiuta a riflettere, è l’occasione da non perdere. E’ la possibilità reale di essere protagonisti, al di là delle stupide, continue e banali contestazioni sul suo “nome”, cercando di volergli attribuire un significato che non ha, che nessuno vuole e che fino ad ora è stato ampiamente smentito con in fatti!

Parola chiave: Trasformazione

di Franco Raimondo Barbabella

Nanni Moretti in Palombella rossa dice che le parole sono importanti. E trasformazione è senz’altro una parola importante. Purtroppo però, qualora non se ne indichi il campo di riferimento, è anche una parola intrinsecamente ambigua. Si sa, infatti, che cosa vuol dire trasformazione in geometria, in fisica, in chimica, in biologia, in linguistica. Non si sa invece immediatamente e in modo incontrovertibile a che cosa ci si riferisca quando si dice trasformazione con riguardo agli assetti sociali e alla politica.
Generalizzando i significati che tale parola assume nelle scienze, si può dire solo che anche in ambito politico e sociale essa intuitivamente indica un passaggio da qualcosa a qualcos’altro, insomma una qualche forma di mutamento. Ma perché un mutamento abbia un senso per noi esso deve essere dotato di un valore, cioè deve intervenire l’etica e dunque il dover essere. Nelle scienze umane non può che essere così. Paradossalmente allora, da questo punto di vista ci è più utile Lucio Dalla che il grande Eraclito. Quest’ultimo dice infatti che tutto scorre, cioè che la realtà è una continua e inarrestabile trasformazione, ma senza preoccuparsi – né potrebbe essere altrimenti – di mettere il segno + o il segno – : non dà giudizi di valore, descrive solo quello che egli ritiene essere il carattere fondamentale del mondo, sia naturale che umano. Lucio Dalla, invece, in L’anno che verrà canta così:

Ma la televisione ha detto che il nuovo anno
porterà una trasformazione
e tutti quanti stiamo già aspettando.

Dove sta la maggiore utilità di Dalla rispetto a Eraclito? In due aspetti: l’uso del futuro e il verbo aspettare, cioè la connessione della trasformazione con la speranza, la quale non può che essere, sempre e comunque, speranza di miglioramento. Lucio Dalla continua, non a caso, così:

Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno
ogni Cristo scenderà dalla croce
e anche gli uccelli faranno ritorno.
Ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno
anche i muti potranno parlare
mentre i sordi già lo fanno.
E si farà l’amore ognuno come gli va
anche i preti potranno sposarsi
ma soltanto a una certa età.
E senza grandi disturbi qualcuno sparirà
saranno forse i troppi furbi
o i cretini di ogni età.

Tuttavia, se vogliamo tutelarci il più possibile (qui siamo infatti necessariamente nella dimensione del relativo), il nostro ragionamento non è ancora finito, giacché la speranza di miglioramento è un diritto di tutti e non c’è nessun criterio oggettivo per stabilire che ciò che è miglioramento per me lo deve essere anche per te.
Ci può soccorrere però un’altra parola, ancora più importante di trasformazione: la parola democrazia, alla quale è consustanziale il consenso sulle opinioni in gioco, per cui alla fine è migliore quella trasformazione che ha ottenuto, con un libero pronunciamento, il consenso dei più. Per converso, qualora si faccia qualcosa che, pur con la veste del miglioramento, viene di fatto imposto alla maggioranza, c’è l’opposto della democrazia, cioè la dittatura. E’ bene dunque che la trasformazione intesa come speranza di miglioramento porti il segno inconfondibile della soggettività e della relatività. Tuttavia, relatività non vuol dire relativismo, nel senso che la democrazia ha le sue regole e che non vi può essere nessuna speranza di miglioramento se queste regole vengono ignorate o impunemente calpestate. Poiché siamo in epoca di elezioni, è bene essere chiari: le regole della democrazia sono state impunemente calpestate. Non importa chi l’ha detto, ma è una semplice verità il fatto che andiamo ad eleggere il nuovo Parlamento con un vero e proprio sovvertimento della regola principe della democrazia, quella che afferma che il potere appartiene al popolo. Non importa chi l’ha detto, ma è una semplice constatazione che un’oligarchia, cioè qualche decina di persone non legittimate dal soggetto titolare della sovranità, si è arrogata il diritto di decidere chi è candidato ed in quale collegio. Non importa chi l’ha detto, ma è avvenuto davvero quello che nessuno scrittore di fantascienza aveva ancora immaginato: che i candidati si potessero scegliere loro stessi il popolo dal quale farsi eleggere, nell’assunto evidente che c’è popolo e popolo, e che ci sono tipi di popolo che eleggono chiunque si presenti per essere eletto. Quale che sia l’esito delle elezioni e quale che sia il segno della trasformazione che da esso deriverà, è chiaro che il miglioramento, qualunque cosa si vorrà presentare come miglioramento, a questo punto dovrà avere come presupposto il ripristino puro e semplice della regola che fonda la democrazia, quella che dice che il potere appartiene al popolo. Normalmente in democrazia una classe dirigente è percepita come tale se dimostra di saper interpretare i bisogni e le speranze dei cittadini, auspicabilmente di tutti e comunque della maggioranza di essi, e non quando è vista come tesa esclusivamente a conservare o ad ottenere privilegi per pochi. E questo vale a tutti i livelli, da quello locale a quello nazionale. La democrazia peraltro è la forma di governo più complessa e difficile perché richiede una continua verifica delle capacità della classe dirigente, nell’assunto che il popolo ha diritto di scegliere come propri rappresentanti coloro che ritiene, a torto o a ragione, essere i migliori, cioè appunto coloro che ne interpretano meglio le speranze di miglioramento delle proprie condizioni di vita. Una classe dirigente perciò di fatto si autodelegittima quando uccide la speranza di un qualsiasi miglioramento. Ed è ciò che stiamo rischiando.
Conviene insistere: non vi può essere una classe dirigente che si ritenga legittimata a governare il popolo quando essa si sia costituita sul presupposto che il popolo è bue e che perciò gli si può propinare qualsiasi cosa, tanto esso non si muoverà dal solco e continuerà a lavorare per il padrone di turno. Tante sono state le ferite inferte a questo nostro amato Paese, ma questa è la più grande. Questa volta si sono superati i limiti. Giunti a questo punto, mi pare ci sia una sola cosa da fare: prendere lucidamente atto della situazione e ricominciare da qui. In tutto questo c’è comunque, a mio avviso, un vantaggio: anche i più ostinati dovranno prendere atto che una fase storica si è davvero conclusa, che sono saltati tutti gli schemi e che è ora di tornare ai grandi principi, alle grandi scelte, alle grandi responsabilità di ognuno, naturalmente se si vorrà continuare a far parte a pieno titolo delle grandi democrazie europee. La misura di ogni atto dovrà allora tornare ad essere ciò che è bene per il popolo e non ciò che è bene per un partito, per uno schieramento, per un gruppo di persone o addirittura per un singolo individuo. Ricominciamo da qui, appunto dalla democrazia e dalla selezione della classe dirigente.

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