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Per una presenza religiosa nuova, che non faccia a meno dell’antico

di Don Italo Mattia

Otto della sera del 27 ottobre 1951. Un bambino a tutti noto – la sua vivacità non permetteva che passasse inosservato – ha finito di bussare alle porte di casa del suo paese. Il giorno dopo – 28 ottobre – entrerà in Seminario ed ha voluto salutare una ad una le persone che, fino ad allora, sono state il suo universo. Quel paese è Allerona; quel bambino ero io. L’ indomani mattina, accompagnato dal caro don Barzi, dai miei genitori e mia sorella, intraprendevo un viaggio, che a me sembrava lunghissimo, tale era la distanza tra Allerona ed Orvieto; ma non lo era per i chilometri, bensì per la meta cui tendeva. Volevo essere Prete, volevo “andare a portare Gesù fino nella lontana Africa” ( sono parole, che la mia maestra di V elementare, Aschettino Anna, mi farà leggere il giorno della mia Prima Messa, consegnandomi un tema, che avevo fatto, e lei aveva conservato; il titolo era: “che cosa vorresti fare da grande”). Oh, non crediate che voglia sembrare un tipo speciale; ricordo che quando si partiva per il militare, più o meno, si passava a salutare mezzo paese. “Speciale”, però, è che, 50 anni dopo, io non abbia ancora dimenticato quella sera: le mani callose di Perrino e Tomasso; la carezza della Vilge e di zia Elvira; la mancetta di zio Meco e la stretta di mano compiaciuta del signor Arrigo; il ciao – non ricordo se con abbracci e baci – dei miei compagni e compagne d’infanzia. Già, una domanda che mi tornerà spesso: “perché io, per fare il Prete, e non Umbertino, Velenino, Peppe o Adolfo? Mistero! Sta di fatto, che sia nella vivacità, sia nelle marachelle, sia nella generosità o nell’attaccamento alle funzioni di chiesa non ero secondo a nessuno; ma, forse, nessuno di noi era secondo ad alcuno. Era – è ? – Allerona il Paese speciale, dove, almeno così io ricordo, le case sembravano stanze di un unico palazzo, le strade, corridoi di questa grande casa e le piazzette – oh, quanto era bella quella della chiesa per giocare a “palla di stracci”! – altrettante salette, dove intrattenersi per parlare di tutto e di tutti, tanto, sempre “affari di famiglia” erano. Eufemisticamente si diceva: “andare a veglia” e, d’estate, “andare a prendere il fresco”; sembrava, piuttosto, una veglia sulle vicende del Paese ed un rinfrescare rapporti ed amicizie. In questa luce, l’arrivo di don Barzi subito dopo la guerra, segnò una vera svolta: teatro al Dopolavoro, Circolo ACLI con tanto di proiezioni cinematografiche e TV poi; colonia estiva al Testareccio e Casanova per i bambini; gite in bicicletta, al traino della sua inossidabile “Alcione”; ed il pallone di cuoio a 12 pezze (chi l’aveva mai visto!), come quello di Mazzola e Gabetto. A proposito, molti oggi mi chiedono che c’entri con me il Torino, per il quale mi ostino ancora a fare tifo ( molta nostalgia, comunque, di un calcio che non c’è più!). Basterebbe essere stato nella mia classe di III elementare quella mattina del 4 maggio 1949, e vedere il nostro pianto disperato alla notizia della disgrazia di Superga, per capire che non potrei fare diversamente, perché non solo tutti eravamo del Toro (…fra l’altro, vinceva sempre!), ma c’è anche un pianto condiviso da ricordare e rispettare. Come in tutte le famiglie di riguardo, ognuno degli abitanti di Allerona aveva un suo ruolo: se si doveva trovare un politico cui affidarsi per fare il sindaco (naturalmente tra DC, partiti di centro e socialcomunisti c’era rigida e riconosciuta divisione) non era difficile trovarlo in Ruggero, Alvaro o Cupello; se volevi la figura dell’intellettuale, capivi subito la stoffa dei fratelli Pacetti e Borghi; per le feste, c’era solo da scegliere tra i vari Tomasso ed i new entry Marzietto, Peppe, Leandro e Nino. Al mio babbo, scherzosamente, ma con orgoglio, dicevo sempre: “e quando c’era un posto di responsabilità – fu giudice conciliatore per tanti anni – dove si poteva riscuotere solo qualche malevolenza, insieme, per la verità, a tanta stima, Marino il falegname era sempre pronto. E chi non ha riso a Carnevale per la verve del “sor Cencio” o la voce imperiosa di Calzafina che ordinava il passo e la “sgargiatina”? Le trombe erano due, Timo e Nino, altrimenti non si poteva eseguire il “valzer di Monte Rufeno”; il basso, Mariuccio, Monaldo, il quartino; il “vecchio Moretti”, il Maestro. Quanto a strumenti per ballare, tutti ne sapevano suonare uno, dal mandolino al clarinetto. La pulizia ed il decoro delle strade era compito di Giorgio Albani; alle tre del mattino passava l’Uliana ad ordinare di “fare il pane”; a scandire il tempo ci pensavano Vitale con le campane di San Michele e Giorgio con quelle di S. Maria. Mariuccio e Pietro, mantengono l’ordine; Alfideo ci assicura l’acqua. Quanto al vino, la Nicola non si fa certo prendere in giro… compreso quello della “collarina”. E’ qui che i più grandi si cimentano a “tressette”, anche se il vero gioco collettivo è “il ruzzolone”: il campione, è chi riesce con un tiro solo ad aprire la porta della stalla del Tufo, a partire dal Cercoleto. Tranquilli, ci sono anche le donne: quelle per il Rosario, sono le Caterine; quelle per il ballo, le più giovani e promettenti (mi permetto di non fare nomi, per non scontentare nessuna; anche a distanza di anni, non si sa mai!); quelle per il lavoro, tutte. Quanti fasci di legna avranno fatto le donne di Allerona! Il latte era compito di noi bambini, che tutte le sere andavamo a prenderlo al Tufo. Due belle figure di preti – una terza, don Serafino, la ricordo solo nella bara il giorno che morì – presidiavano il Vangelo e l’altare. Che più diversi sarebbe difficile immaginare; ma anche così complementari, che mi è facile, oggi, rifarmi a don Ugo, quando sento il bisogno della fedeltà alla preghiera ed al ministero e a don Barzi, se voglio un sacerdozio che sia compreso e totalmente donato alla gente. I ruoli istituzionali prevalevano addirittura sul nome: Borri, era solo “il Segretario”; c’era “il farmacista”, “il dottore”, “ il daziere”, “il maresciallo”; Petricelli, un Direttore didattico con tanto di medaglia d’oro, era solo “il Maestrone”. Ci vorrebbe un libro per dire tutto: le figure, i ruoli, le battaglie, le speranze… le “albagie” di questo Paese. Aggiungo una sola cosa: chi non aveva ruoli speciali, ne aveva, comunque, uno specialissimo: era di Allerona, “Alleronese”. Che ci sia, dunque, uno specifico di Allerona, che si porta nel sangue e che, forse, è anche quel qualcosa, che ha fatto nascere ed andare avanti Heimat?
I miei compagni di Seminario dicevano che erano le polpette con l’ortica, di cui noi Alleronesi saremmo stati ghiotti. Per farci capire, poi, che era segno di povertà e taccagneria, non , come oggi, una sciccheria, aggiungevano canterellando la filastrocca: “Allerona, Allerona, chi te dà e chi te dona; chi te dona e chi te dà: porta il pane se voe magnà”.
Una risposta più sofisticata l’avevo immaginata io, quando, rimasta quella di Allerona l’unica strada ancora non asfaltata di tutto l’Orvietano, avevo capito che quella di Allerona era una via che non portava se non ad Allerona e rendeva, pertanto, il nostro un Paese praticamente isolato. Ma anche, in qualche misura, autosufficiente, come chi sa di poter contare solo sulle sue forze e di dover fare tutto da sé. Ironia della sorte, quella strada che, continuandola, portava solo a Trevinano e di lì ad Acquapendente, fu l’ultima che percorse in Diocesi un grande Vescovo, Monsignor Francesco Pieri. Era il 13 maggio del 1961. La malattia di don Ugo mi aveva fatto il dono di una vacanza inaspettata. Fui io ad accogliere il Vescovo, che veniva per la Cresima dei ragazzi di Allerona. L’anno avanti mi aveva ammesso tra i chierici, dandomi la “tonsura” (allora noi preti si usava tagliare un cerchietto di capelli sulla nuca; …oggi, ci ha pensato il tempo a regalarmene una naturale!). Proseguì per Acquapendente, il suo paese natale, per festeggiare la Madonna del Fiore e lì, durante la processione, morì il giorno dopo, il 14 maggio 1961. La stessa domanda, oggi, mi viene indicata come tema di questo articolo: ”per una presenza religiosa nuova, che non faccia a meno dell’antico”. Qual è, dunque, lo specifico di Allerona, che corre lungo i secoli e che permette – ha permesso – al nostro Paese di essere “Allerona” e, almeno per noi, un paese da sogno? Premesso che questo interrogativo rimane aperto e attende la risposta di chiunque voglia provare a cimentarsi con esso, provo ancora una volta e a distanza di anni, a dare la mia. Io penso che il “fil rouge”, che attraversa e caratterizza la storia di Allerona sia la fede cristiana. Si riconosce ad un giovane patrizio romano, Ansano della famiglia degli Anici, il merito di averla portata per primo quassù: siamo intorno al 300. In quegli anni a Roma infuriava la persecuzione di Diocleziano. Ansano deve fuggire, in nulla giovandogli – che, anzi, era un’aggravante – l’essere figlio del capo delle guardie imperiali. Quelle persecuzioni, però, sono anche provvidenziali, perché la fuga diventa un “esodo” ed un pellegrinaggio per seminare la fede dovunque si passasse. Bagnoregio, Spoleto, Orvieto, Siena…Allerona: Ansano, il battezzatore, feconda con la sua fede la terra di Allerona. Ad una giovinetta, cui si era rotta la brocca, mentre andava a riempirla d’acqua, la ridona integra. Non ci si potrebbe scorgere l’immagine di una civiltà –quella romana – che si andava disgregando e che, invece, l’incontro con il Cristianesimo – Ansano – riuscì a risanare? Così fu per Allerona, una delle prime “pievi”, dove la presenza della fede si consolidò, tanto che, ancora oggi, il suo parroco è chiamato “pievano”, a ricordo di quella antica presenza. Non valse ad attenuare la fede degli Alleronesi il continuo passaggio dei popoli d’Oltralpe, che, anzi, come dovunque nell’Impero romano, ne scaturì un generoso impasto di virtù umane e cristiane. Più tardi – siamo nel ‘500 – il ricco mercante del castello di Lerona, Muzio Cappelletti, non ebbe alcuna remora a destinare tutto il suo ingente patrimonio alla formazione dei giovani; sarà trasformato, dopo il Concilio di Trento, in “lascito” per i giovani che si preparavano al sacerdozio. Allerona – credo unica testimonianza del genere – ancora agli inizi del ‘900 contava nel suo territorio ben 5 parrocchie, dalla Meana, a S. Abbondio a S. Pietro, oltre le due del paese. Mio padre mi ricordava di aver visto spesso questi parroci radunarsi in occasione degli Offizi funebri ad Allerona. S. Pietro fu sede di una residenza monastica, “dependance” di quella prestigiosa di Abbadia S. Salvatore sull’Amiata. E’ nel ricordo di tutti i miei coetanei – i più giovani si fidino ché è proprio così – la profonda religiosità del dopoguerra; le chiese di S. Michele e S. Maria piene non solo per le feste, ma ogni domenica; le processioni – sempre ben ordinate e devote, da quella di S. Ansano a quella dell’Addolorata – vero momento di profonda tensione civile e religiosa. La Madonna dell’Acqua – un gioiellino tanto delicato da scomodare persino il Sangallo tra i possibili progettisti – dava un tocco di tenerezza alla religiosità degli Alleronesi. Chi non ricorda il vocione di Dagoberto, che declamava: “In questa reliquia si conserva…”, e le campane a rispondere con i tocchi riconoscenti verso quel santo o santa, che anche con la sola presenza in “reliquia” aveva fatto grande il nostro Paese. Naturalmente, a S. Ansano, toccava il suono a festa, mentre (oh, quel birichino di campanaro !) si pensava di far torto ai contadini, riservando al loro patrono S. Isidoro i tocchi semplici di un santo normale. Era tanto radicata la fede nel tessuto civile che, nel mio immaginario di bambino, primavera – funzione del mese di maggio – libertà di gioco prima e dopo erano tutt’uno. A ben pensare, persino la massiccia adesione (…non parlo della propaganda, ché sarebbe troppo difficile da spiegare!) alle idee socialcomuniste potrebbe non contraddire questa mia tesi. Basti ricondurla al bisogno di giustizia ed equità, certo non estraneo al Cristianesimo. Sta di fatto, che quando è il momento della processione del Santo Patrono, queste appartenenze (se non erano motivate da altro) non impedivano di parteciparvi, magari facendo a gara per portare stendardi e lampioni. Poi venne la rivoluzione industriale, l’inurbamento, la fuga dalla campagna: fenomeni tutti che basterebbero per distruggere non una religione, ma “la religione”. Così non fu, anche se, credo sommessamente, quella richiesta di purificazione e attualizzazione espressa dal Concilio Vaticano II, anche ad Allerona, come ahimè in tutta la Chiesa, aspetta ancora in buona parte di essere presa sul serio. Lo stesso ’68 – un altro fenomeno collettivo, che anche ad Allerona fece la sua comparsa – altro, forse, non era che bisogno urgente di rinnovamento, di purificazione, di autenticità. Si cantava “Dio è morto”, ma si sperava che non fosse vero e che, piuttosto, a morire fosse tutto ciò che con Dio aveva poco o nulla a che fare.
E’ certo, comunque, al di là di ogni ulteriore riflessione, che non si spiegherebbe il senso profondo dell’onestà, della laboriosità, dell’amicizia, della disponibilità al vicino (ricordate le chiavi sulla porta di casa ?!), della dignità persino nel vestire, senza il rimando a qualcosa che ne giustificasse la conquista, passando per l’inevitabile fatica e i prezzi da pagare.
Io credo che questo qualcosa sia, in verità, “Qualcuno”, che ti spingeva con la sua grazia, ti aiutava mediante la testimonianza dei suoi fedeli, ti dava speranza nelle difficoltà e nella sconfitta. E’ Cristo, la Chiesa, la fede cristiana questo “Qualcuno”. Il Cristo di Ansano, di Muzio Cappelletti, di Dagoberto, di Tomasso, Marino, Nino, don Barzi. Tutte figure, che mi sono servite per raccontare – purtroppo, ora mi accorgo in modo troppo autobiografico – la storia di Allerona attraverso i secoli. Persone e nomi che non sono ricordati perché “andavano in chiesa”, ma perché, piuttosto, essendo Chiesa, facevano “paese”, comunità, cultura civile. Si, qualcuno potrebbe provare a raccontare Allerona citando i nomi dei briganti – ce ne furono anche famosi ! – o degli anarchici (uno, mi raccontava mio padre, era solito intercalare il suo dire con l’espressione “Teste!” e giù un gesto del braccio come chi taglia un tronco: era l’augurio che ad ogni gesto una testa di prete avesse a cadere!) o persino dei Monaldeschi, i signori di Allerona. Ma ne verrebbe fuori una serie di episodi, che non fanno storia, soprattutto non darebbero ragione del carattere, dello stile di vita degli Alleronesi.
In questo senso, credo non sia disdicevole rileggere l’antica leggenda, che vuole collegare il nome del nostro Paese al passaggio per i boschi del Diavolo in persona. Montava un cavallo di nome “Leron”; giunto nelle nostre zone non voleva più andare avanti. Uno strattone deciso di briglie, due tocchi di sperone ed un grido: “Ah, Leron!”. Il Diavolo aveva capito che quello non era posto per lui. Ed il cavallo Leron partì di corsa. Era rimasta Allerona, un paese per il Bello, per il Vero, per il Bene: il nostro Paese !

P.S. Chiedo scusa agli illustri colleghi estensori di articoli tanto profondi ed attuali in questo e negli altri numeri di Heimat. Non escludo di tentare qualcosa del genere anch’io, in futuro; forse, riuscendovi, se con questo non mi sarò bruciato tutto il credito e l’attesa del Direttore. Quello che ho scritto era dovuto al mio Paese, alla mia gente, cui devo la mia vocazione, il taglio del mio sacerdozio e della mia umanità. E’ come se avessi, finalmente, pagato un debito di riconoscenza; è un grande “grazie” a tutti gli Alleronesi. Quella sera del 27 Ottobre 1951 non la potrò mai cancellare dalla mia vita. Del resto – non so se lo sapete – sono il parente più prossimo dell’antico cantore di Allerona, quel Germano Scargiali di “Allerona mio dolce paesello”. Non ho la stoffa del poeta come lui; ma la stessa fede, lo stesso amore, la stessa gioia di dire “grazie, Allerona!”.

Nasce il Coordinamento delle Associazioni dell’Alto Orvietano

di Vittorio Fagioli – Portavoce di CACAO

La sala polivalente del comune di Montegabbione ha tenuto recentemente a battesimo la nascita di CACAO, acronimo che sta a significare il Coordinamento delle associazioni che a vario titolo si occupano della conservazione, valorizzazione e fruizione dei territori dei comuni a nord di Orvieto quali Allerona, Ficulle, Fabro, Parrano, Monteleone d’Orvieto, S.Venanzo e naturalmente Montegabbione. Hanno aderito oltre trenta associazioni e soci individuali, provenienti anche da comuni viciniori, interessati a dare un contributo alla attività del Coordinamento. Nominati gli organi sociali, CACAO inizierà la sua attività sin dalle prossime settimane con la definizione delle prime tematiche su cui sviluppare la sua attività nel territorio. L’idea del coordinamento delle associazioni ed altri soggetti di società civile operanti nei comuni dell’area dell’Alto Orvietano nasce nei primi mesi dell’anno 2000 ad opera in particolare di soggetti attivi nei comuni di Montegabbione, Monteleone e S.Venanzo: l’interesse che riscuote la proposta incoraggia a continuare il processo nei mesi estivi, che si è ora appunto concluso nella assemblea del 17 dicembre a Montegabbione. La motivazione di fondo di coordinare quanto di organizzato esiste sul territorio nasce da una precisa analisi territoriale circa i 7 comuni sopraindicati che mostra come in un territorio di circa 500 Kmq vivano poco più di 12.000 residenti con una densità di circa di 24 ab/Kmq, una delle più basse della regione Umbria ed in assoluto in Italia : l’insieme è un medio condominio di una grande metropoli. Questa situazione, rende enormemente difficile da una parte la comunicazione tra le associazioni di società civile impegnate sul territorio e la stessa circolazione delle esperienze, dall’altra anche un intervento coordinato sul territorio delle amministrazioni a causa di “campanilismi” storici duri a morire e delle ridotte risorse economiche disponibili. Il coordinamento tra le amministrazioni, seppure auspicabile, è ancora insufficiente e riguarda qualche raro isolato servizio comune. Non viene quasi mai messa a rete in maniera significativa una politica comune di intervento sull’intero territorio ed in particolare relativa alla sua tutela e valorizzazione: il comprensorio non viene ancora vissuto dagli amministratori locali come un unicum composito, manca un approccio globale che consideri tutto questo territorio, ed anche oltre, come un’area unica. La recente legge regionale 13.01.2000, n.4 istitutiva del Sistema Territoriale di Interesse Naturalistico -Ambientale Monte Peglia e Selva di Meana (STINA) individua per la prima volta, in modo istituzionale, un unico sistema territoriale di particolare interesse naturalistico-ambientale proprio costituito dai suddetti comuni, suscettibile di essere qualificato in futuro come “parco regionale”, anche se la legge individua per ora, come è noto, il parco di Allerona, quello vulcanologico di S.Venanzo e quello dell’Elmo-Melonta. Si è così finalmente risvegliato un interesse anche istituzionale su un’area di sottosviluppo, trascurata da precedenti flussi industriali e terziari che, come denunciato dalla recente indagine di Legambiente e Confcommercio per analoghi territori di media collina italiana, appare destinata ad un lento ma inesorabile rischio di estinzione, comportando sin d’ora un forte “disagio abitativo” per la restrizione del tessuto produttivo, l’isolamento e la conseguente perdita di servizi. E’ da questo interesse nuovo e dal valore che quest’area naturale poco antropizzata e ambientalmente poco compromessa, che può nascere un importante sviluppo ecocompatibile che sappia percorrere nuovi processi di crescita legati al turismo leggero, culturale, salutista interessato alle mille emergenze di questa Umbria “minore”: turismo delle cosiddette “località minori” che sta riscuotendo ormai sempre più consensi ed interessi diffusi da parte del mondo associativo e degli operatori del settore. Periferia che può dare un contributo importante allo stesso fenomeno turistico di Orvieto, capitale di questo territorio, che vive flussi turistici ancora insufficienti e basati perlopiù sulla città e non sul suo interessante hinterland, di cui i comuni dell’Alto Orvietano rappresentano la parte più significativa per ragioni ambientali, culturali e storiche. In questa situazione la società civile, organizzata in associazioni culturali di vario genere nonché con soggetti che a diverso titolo operano sul territorio nel campo del turismo, dell’artigianato, della cultura e dell’arte – accomunata da un intento di salvaguardia e di valorizzazione dell’area dei sette comuni – ritiene importante impegnarsi come corpo unico per dare forza al processo di sviluppo che si sta mettendo in moto, per contribuire ad orientarlo, volendo rappresentare una controparte credibile nei confronti delle istituzioni comunali, di comprensorio, provinciali e regionali. CACAO vuole portare nell’area un elemento di dinamicità e di battaglia capace di orientare anche un rinascimento culturale nel territorio: CACAO è per sua natura un coordinamento apartitico, ma non apolitico, anzi intende fare “politica” nel senso migliore del termine per la difesa e la salvaguardia del territorio, avendo presente i bisogni e gli interessi dei suoi abitanti. Dall’esperienza di CACAO, se riuscirà ad essere profondamente inserito nella società civile del territorio e ad articolare positivi rapporti con le istituzioni locali anche in termini di proposte valide di sviluppo, possono svilupparsi anche articolazioni di attività promozionali e di servizi per la valorizzazione e il godimento ecocompatibile delle emergenze del territorio, nel rispetto della sua peculiarità, valenza ambientale, cultura e storia.

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