La Mossa del Cavallo

di Gianpiero Jacobelli

Si parla di un posto, anzi del posto proprio, e ci si mette davanti l’acca, una lettera che in italiano non ha suono e serve soltanto come discriminante grafica, tra un verbo e un avverbio, tra una consonante dura e una dolce. Perché Heimat, mi sono chiesto, se poi il problema è Allerona o magari Orvieto, dove una volta si masticava poco anche l’italiano, figuriamoci il tedesco o quello che è? E, viceversa: perché occuparsi di Allerona e del suo territorio, cioè di un Paese e di una zona che si distinguono a malapena sulla carta geografica, se poi si sente il bisogno di riscattare questa eccessiva indulgenza per le proprie radici, contrastandola mediante segnali di cosmopolitismo? Suggerisce l’antico proverbio di parlare come si mangia. Tanto più che da queste parti i Tedeschi ci sono passati davvero e non hanno lasciato certamente dei buoni ricordi. Più tardi, cominciando a distinguere tra le varie idee, e i vari stili, che circolano sulla rivista, mi sono reso conto che, a prenderla sul serio, scontando qualche comprensibile eccentricità, Heimat, se non come punto di arrivo, poteva essere utile come punto di partenza. In effetti, Heimat non è la terra della nostalgia, quella in cui si desidera tornare, ma è la terra da cui si può e si deve prendere le mosse, per allargare il proprio orizzonte senza salti nel vuoto, ma restando ancorati saldamente alle proprie origini. Per quanto questa prospettiva possa apparire rassicurante e confortevole, non sempre è agevole e non sempre è piacevole adattarla e metterla in pratica. Avrete notato che, da quando la televisione ci serve a tavola le previsioni meteorologiche illustrate da immagini satellitari, il tempo, quello atmosferico naturalmente, non è più lo stesso. Prima, quando pioveva, si malediceva il governo, con l’idea di compiere un gesto apotropaico che poteva trasformare la brutta giornata in una fresca, anche se incostante, giornata primaverile. Prima, il tempo locale era percepito come qualcosa che, proprio in quanto locale, poteva cambiare da un momento all’altro, perché uno spiraglio tra le nuvole è sempre possibile. Ora non è più così. Ora siamo diventati tutti dei meteorologi provetti, che scrutano e analizzano sullo schermo televisivo le formazioni nuvolose continentali, i venti, le zone di alta e bassa pressione e ne traggono una sensazione di ineluttabilità. L’ampliamento del campo di osservazione ha ridotto i margini di libertà che si potevano ipotizzare nelle precedenti osservazioni circoscritte. La consapevolezza dei tempi lunghi, delle macrostrutture ha preso il sopravvento sulla aleatorietà di quello che avviene, che può avvenire sulle nostre teste. Stiamo perdendo il gusto della speranza, dal momento che la speranza, ha una portata interstiziale, è legata all’interesse per un posto così piccolo da sfuggire alle previsioni. Tutto questo discorso per giungere ad una parola sola: interesse, l’essere in mezzo, tra me e me, tra me e te, tra noi e gli altri. L’interesse come criterio di appartenenza, come criterio di importanza, ma anche come consapevolezza che l’appartenenza e l’importanza devono essere mediate, perché emergono appunto dal fatto che stanno in mezzo, non del tutto dentro di noi né del tutto dentro gli altri, ma in mezzo. L’interesse presuppone una mediazione, presuppone che ciò che siamo, possa apparire interessante non soltanto a noi, ma anche agli altri, e a noi tanto più quanto più interessante per gli alrri. C’è chi ha lamentato che a parlare di Allerona fossero soprattutto gli emigrati, quasi stranieri che si arrogano il diritto di lavorare la terra del passato e del futuro, della memoria e della previsione, senza sporcarsi le mani. Ma come sarebbe possibile alrrimenti? Parlare di qualcosa, senza limitarsi a raccontare le vecchie storie che si raccontano al tramonto, dopo il lavoro, seduti sulla soglia di casa, presuppone che quel qualcosa non si trovi più isolato e circoscritto ma, per l’uno o per l’altro di quanti se ne sono dovuti andare, sia entrato in contatto con il mondo esterno, sia diventata parte di qualcosa di più lontano, di più grande, di più problematico. Questo è ciò che conta: che muovendo dalla ricognizione del proprio interesse e accrescendone la consapevolezza e la portata proprio grazie alla mediazione dello sguardo altrui, di quello sguardo che ci scruta in maniera inquisitoria, ma che in fondo è la condizione fondamentale per non continuare a guardarci soltanto allo specchio, si giunga consapevolmente, e non perché travolti dalla deriva della modernità, a quella che è stata definita come la connettività complessa, la crescita in ogni direzione della rete di interconnessioni e di interdipendenze che caratterizzano la vita economica, sociale e culturale dei giorni nostri. La rete, dunque, è entrata in campo anche parlando di Allerona, e non si tratta soltanto di una rete metaforica, se è vero che sta cambiando le abitudini di vita di molti giovani abitanti del comprensorio orvietano, né si tratta soltanto, fortunatamente, della Rete con la erre maiuscola: quella che si affaccia agli schermi dei terminali, talvolta offrendoci una realtà virtuale in cambio di quella reale, e talvolta offrendoci una realtà reale in cambio di quella virtuale, nella quale spesso ci troviamo a vivere, in questa società dei consumi imitativi, in questa società delle informazioni illusorie, in questa società in cui tutti hanno qualcosa da promettere perché hanno poco da dare.

Si trana anche, e forse soprattutto, della rete con la erre minuscola, la rete come dimensione spirituale e materiale dell’essere insieme: di un essere insieme che non viene prima, quando la famiglia, il paese, la scuola sembrano cercare di convincerti che non ci sia bisogno di relazioni e riconoscimenti diversi da quelli dovuti; di un essere insieme che, al contrario, viene dopo e fa leva sulle relazioni e sui riconoscimenti voluti, cercati e trovati in un clima di confronto e di crescente concorrenzialità, ma ovviamente anche di incontro e di alrrettanto crescente solidarietà. Per questo motivo, il rapporto tra locale e globale deve essere dialetticamente declinato in una duplice accezione: quella del pensare globale e agire locale, perché oggi i problemi si risolvono meglio se sai come li hanno risolti gli altri; quella del pensare locale e agire globale, perché oggi anche tu, proprio perché sei tu, puoi diventare un punto di riferimento per gli altri, facendo di necessità virtù, del tuo piccolo mondo un grande mondo che può avere moho da dire anche a chi non conosci e forse non conoscerai mai.
Stai in un posto, un luogo alto che domina la vallata, ti guardi intorno e non è vero che lo sguardo si spinge all’infinito. Proprio perché ti trovi in una vallata, anche se il luogo è alto, lo sguardo giunge subito al termine della piana, va a infrangersi sulle colline che la circondano, e anche la fantasia prende il volo, ma subito si posa, anzi si riposa. In questo riposo della fantasia, dopo avere spento la televisione, è possibile ipotizzare confluenze e connessioni di interesse che vadano concettualmente oltre quel particolare profilo delle colline su cui lo sguardo non può prevalere; ma che, proprio in quanto non si vedono a prima vista, devono essere cercate, selezionate, attivate: in una parola, create. Dicevano i filosofi antichi che, a parte ogni altra ragione – ma si sa che nessun ragionamento è tanto spericolato quanto inane, come quello che si affanna a provare razionalmente l’esistenza di Dio – Dio esiste, deve esistere come metafora della conoscenza. Per conoscere bisogna allontanarsi dall’oggetto della conoscenza, prendere le distanze, ipotizzare, come il celebre Barone di Munchausen, di tirarsi su per i propri capelli in modo da vedere le cose dall’alto, tutte le cose, quelle che abitano lo spazio e quelle che abitano il tempo, per poterle inquadrare e concepire complessivamente, prescindendo dalle loro singolarità. Dio è il nostro modo di dire che conoscere è possibile, che lo spazio e il tempo possono essere concepiti non come sequenze insignificanti, ma come sistemi formali, coerenti e consequenziali: in una parola, che si può conoscere perché, fuori di noi, lassù in alto, c’è qualcuno che ci conosce.
Heimat non deve apparire come una fuga in avanti, ma come la mossa del cavallo nel gioco degli scacchi: un passo di fianco per procedere oltre. L’ordine della possibilità non costituisce certezza: si può partire, se in mezzo tra noi e quelli che incontreremo per le strade del mondo, vicino e lontano, resta il senso dell’appartenenza originaria; si può tornare, senza doversi forzatamente rinchiudersi in una dimensione provinciale, se tra noi e noi resta l’altro, quell’altro di cui, andando in giro, abbiamo compreso l’importanza. In questa prospettiva, Heimat non è una promessa, né una scommessa: piuttosto è un progetto e come si dice forse in maniera letterariamente non troppo elegante una strategia dell’attenzione: non per ciò che è qui o per ciò che è là, ma perché ciò che è qui diventi progressivamente anche ciò che è là. Anzi, diventi un là sempre un poco più in là.

L’autore è direttore dell’edizione italiana di Technology RnlÌtw, rÙ,ista del M/T (Massaclmsetts lnstitutt ofTechnology).

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