Che cosa fa Oblomov

di Daniele Di Loreto

Nulla, Oblomov non fa nulla. E’ un nobile della Russia zarista della metà del secolo scorso, poco più che trentenne, che vive a Pietroburgo con i proventi della sua tenuta. Da anni rimurgina il proposito di approntare un piano di ammodernamento dei suoi possedimenti che, nell’attesa, vanno a rotoli. E’ del tutto incapace a gestire gli avvenimenti della sua vita ed è prigioniero di un fatalismo così sterile ed antieroico che il mero rimandare, anche di qualche giorno, il confronto con un problema gli appare infallibilmente un’eccellente soluzione, come un irresistibile viatico all’immobilità. Oblomov è il protagonista del romanzo omonimo di Ivan Goncarov, pubblicato nel 1855, ed è stato scelto da Eurispes (Istituto di Studi Politici Economici e Sociali) come metafora dell’odierna situazione del Paese nel “Rapporto Italia 2001″, che è uno studio attento dei mali e dei vizi del nostro Paese, presentato all’Università di Roma “La Sapienza” il 26 gennaio scorso. Oblomov sogna, fantastica sul futuro, ha mille propositi ma muore senza averne attuato neanche uno. Non ha mai intrapreso niente di tutto quello che, in buona fede, andava promettendo a sé e agli altri. Oblomov è pigro, ingenuo, indolente, smidollato, ma è anche onesto. Vive accanto ad una donna dalla quale non riceve alcuno stimolo, se non quello a perseverare nella sua vita vegetativa. E alla fine muore, senza dolore, senza sofferenze, come si ferma un orologio che ci si è dimenticati di caricare. Nella sua casa la logica era “perché pulire, visto che comunque domani sarà sporco di nuovo?”. In ogni stanza regnavano l’incuria e l’abbandono, uno spesso strato di polvere sedimentava sui muri e sulle finestre, talmente sporche che anche nelle giornate di sole si aveva l’impressione del maltempo: come nel nostro Paese, dove ogni giorno che passa tutto assomiglia sempre più alla casa di Oblomov. Oblomov ha dato il nome all’oblomovismo, una complessa patologia che non è descritta in nessun manuale medico ma che è assunta come atteggiamento di apatica e fatalistica indolenza. L’oblomovismo non è un modo di vivere la vita, bensì un surrogato della vita. In un Paese dove tutto appare a portata di mano, dove l’unica preoccupazione sembra essere quella di galleggiare in attesa che altri risolvano i problemi, dove si delegano persino le emozioni e le esperienze, l’oblomovismo rappresenta più di uno spettro, che è penetrato nelle nostre vene fino a divenire – secondo la ricerca di Eurispes – un tratto distintivo del carattere nazionale. Il Paese attraversa un processo di atomizzazione che si propaga dal privato al sociale e viceversa, senza soluzione di continuità. I soggetti si stanno sempre più rinserrando dentro se stessi, sempre più indifferenti a tutto ciò che non tocca direttamente i loro interessi personali. Non solo si isteriliscono progettualità e lungimiranza, ma anche le conquiste rischiano di essere vanificate, disperse, proprio perché ci si illude che siano acquisite una volta per sempre. Il fatalismo che ne consegue – con i corollari dell’apatia, dell’accidia, dell’abulia, anch’essi squisitamente oblomovistici – sottende un approccio “infantile” ai problemi, per non dire all’esistenza, che non ha nulla di creativo. “I diversi ambiti dell’azione politica (economica, sociale, occupazionale, internazionale) sono caratterizzati – secondo il rapporto di Eurispes – da una preoccupante frammentarietà e denunciano l’assenza di un progetto, di un orientamento generale in grado di dare significatività ai singoli atti”. Che cosa fare per invertire il corso delle cose? Che cosa fare per realizzare almeno uno di quei tanti e buoni propositi di Oblomov? Che cosa fare perché le promesse fatte siano mantenute? “Bisogna cominciare dall’inizio. E l’inizio di tutto è il coraggio. Il coraggio è la virtù dell’inizio, come la fedeltà è la virtù della continuità e il sacrificio quello della fine” sosteneva Vladimir Jankélévitch, filosofo francese del ’900.
Abbiamo avuto coraggio all’inizio, siamo rimasti fedeli alle scelte coraggiose, abbiamo fatto sacrifici fino alla fine ed il risultato è deludente. Ora il cerchio si chiude: bisogna ricominciare. Si dovranno assumere scelte coraggiose per poter ricominciare.
Ricominciare a stabilire i ruoli, a ridare valore e nobiltà alla politica, ad assegnare nuovamente alla funzione pubblica gli uomini che, per capacità e competenza, possano contribuire al cambiamento. A che serve altrimenti la politica se non per migliorare l’esistente? Alla gestione ordinaria già pensa la burocrazia; che i politici allora si impegnino alla trasformazione del Paese! Bisogna cominciare ad innescare “epidemie positive”, a produrre senso dal basso, a trovare il punto d’appoggio e la leva con cui poi sarà facile sollevare il mondo.
Ma dovremo scegliere gli uomini giusti, evitando Oblomov perché, nonostante sia onesto ed in buona fede, non è adatto.

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