Quinto pensiero: i sensi di colpa

di Giorgio Albani

Percorriamo ancora un altro passaggio in quel cammino di consapevolezza che ci siamo proposti. Siamo partiti da una definizione del principio di responsabilità (recentemente rivisitato) per passare attraverso la tappa delle dipendenze, intese in senso fisico e mentale. Con questo scritto cercheremo di definire cosa siano i sensi di colpa e che rilevanza essi possono avere nel cambiare (di norma in peggio) la nostra vita.
Tutti i giorni noi ci confrontiamo con gli altri e con noi stessi. Senz’altro il confronto più duro è quest’ultimo. Il cammino evolutivo deve fare i conti continuamente da una parte con la miriade di sensi di colpa che ci portiamo dietro sin dall’infanzia, dall’altra con le pulsioni narcisistiche, forse un po’ innate nella natura umana, che tendono a porci al centro del mondo e a relativizzare tutto alla nostra misura. Capire ed elaborare i sensi di colpa è un passaggio importantissimo perché ci consente di conquistare quella libertà della mente che, in assenza di vincoli e zavorre, dispone alla conoscenza priva di pregiudizi e di resistenze. Anche la persona più serena porta con se un bagaglio complicatissimo di sensi di colpa che germogliano sin dalla prima infanzia. Si comincia a pensare di non essere stati dei bravi figli (non all’altezza comunque delle aspettative dei nostri genitori), poi matura l’idea di non essere stati bravi scolari (non adeguati alle aspettative degli insegnanti), poi, in quel cammino prolungato e complesso che è la vita, ci si convince di non essere proprio bravi mariti o mogli, almeno quanto richiederebbero le presunte aspettative del partner. Quando arrivano i figli, se arrivano, ci convinciamo di non riuscire ad essere genitori sufficientemente bravi ed adeguati. Nel condurre la nostra occupazione, prima o poi, si fa strada l’idea che potremmo far di meglio.

Tutto sommato sino a qui il pensiero potrebbe anche rivelarsi positivo poiché può essere di stimolo al miglioramento. Se non fosse che a questa premessa segue frequentemente la conclusione che tutto quello che facciamo sia sbagliato e inadeguato. Spesso il rapporto con gli altri, attraverso piccoli segnali che riceviamo o che presumiamo di ricevere, ci aiuta a rafforzare questa idea. Questo processo mentale (processo inteso come passaggio ma anche come vera e propria causa giuridica che intentiamo continuamente a noi stessi) coinvolge, pur in misura diversa, tutte le persone. Anche quelle che sembrano più sicure e spedite sulla strada della vita. L’autocritica, entro certi limiti, è un meccanismo di controllo positivo poiché può evitare scivolate verso la presunzione, o per meglio dire verso quei “demoni” naturali che sono il narcisismo e la megalomania. Se portata all’estrema conseguenza, può determinare nell’essere umano un processo deviante di analisi della sua vita in cui l’unica certezza che si da è quella di essere colpevole di qualcosa. Pertanto inizia una ricerca accanita nei meandri più profondi della memoria per trovare le cause di questa non più presunta ma sicura colpevolezza. Ogni esperienza del vissuto, ogni traccia del passato vengono riletti in funzione di una prova di colpevolezza (nella realtà del tutto inesistente) che turba ogni giorno sempre di più i pensieri di chi finisce in questa trappola. Ci sono persone che, addirittura, dal momento in cui si svegliano (se non lo hanno fatto anche durante la notte) iniziano a cercare dei motivi per sentirsi colpevoli e ignominiosi. Forse tutti i sermoni recepiti sull’essenza più pura del “peccato originale” che vorrebbe che ognuno di noi, nascendo, debba portare un bagaglio gratuito di colpevolezza, giocano subliminalmente un ruolo di condizionamento non indifferente nella nostra area culturale. Non è certo questa una critica al pensiero cristiano che, superate le fiamme dell’inferno presenti in ogni pagina del vecchio testamento, ha saputo rielaborare vie nuove e più serene del rapporto con la divinità. Riuscire ad abbandonare i sensi di colpa ed accettarci per quello che siamo, anche con i nostri difetti, è un atto di amore necessario che diamo a noi stessi per iniziare un “cammino di guarigione interiore” che possa condurre ad una evoluzione della nostra persona fisica e mentale. Se vogliamo confrontarci serenamente con gli altri la virtù più importante che va appresa è la tolleranza. Ma la prima spesa utile che si può fare di questa virtù è quella diretta verso noi stessi. Tollerare il corpo e la mente di questo nostro essere che ci portiamo dietro (noi stessi) e con il quale abbiamo certamente più rapporti che con gli altri, è un passaggio necessario per iniziare un percorso che non può minimamente rischiare di portarsi dietro queste pesanti zavorre. Raggiungere la consapevolezza che, in fondo, siamo quello che siamo e basta è atto maturo. Non a caso si ricollega con quel salutare lavoro interno che dobbiamo svolgere per distaccarci dalle dipendenze. Il senso di colpa potrebbe anche essere interpretato come una dipendenza da certi aspetti fuorvianti della nostra interiorità che dobbiamo perdere prima possibile. Gli antichi alchimisti si erano dati il compito di trasformare il piombo in oro e cercavano nella pietra filosofale il catalizzatore necessario per questa trasformazione. Nel loro linguaggio arcaico, esoterico, occulto in realtà non volevano fare alcun riferimento ai due metalli intesi come noi ancor oggi li concepiamo. Il piombo era la materia grezza, poco evoluta che costruisce ogni essere umano fondamentalmente fisico e terrestre, pieno di bisogni materiali. L’oro, il punto di arrivo, doveva essere la purezza dell’anima che, al di là delle implicazioni di matrice religiosa, potremmo oggi definire la purezza dell’io interiore, quando è svincolato da ogni bisogno materiale. La condizione necessaria per raggiungere questa purezza non era la pietra filosofale, intesa come palpabile materia minerale, bensì la “morte filosofale” della persona. Anche in questo caso non si voleva far riferimento alla morte fisica del corpo ma semplicemente all’abbandono completo, pertanto alla morte, del precedente modo di essere e di pensare dell’individuo che voleva porsi come meta quella della trasformazione. Trasformazione e trasfigurazione nello stesso tempo. Se io muoio a me stesso, nei miei vecchi principi, nel modo di essere e di pensare facendo “tabula rasa” di tutto ciò che si è stratificato in me posso avere la possibilità di rinascere ad una vita interiore nuova fatta di principi, sensibilità e conoscenze diversi localizzati ad un gradino più alto sulla strada dell’evoluzione.

In qualche modo il nostro cammino evolutivo è ancor oggi un cammino alchemico e la nostra morte filosofale corrisponde con l’abbandono dei sensi di colpa, dei pregiudizi verso noi stessi e gli altri, delle resistenze, delle zavorre, delle certezze assolute e inoppugnabili che ci impediscono di apprendere e confrontarci con esperienze e modi di pensare e di essere nuovi, migliori.

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