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Impariamo a guardarci dall’alto

di Franco Barbabella

Quando da ragazzo mio padre mi portava ad Orvieto da Allerona con la sua balilla verde, restavo ogni volta affascinato da quella vista alta di case e torri che si confondono in un tutt’uno con la rocca di tufo, quasi a costituire un gigantesco maniero che domina prepotente la campagna.
Molti anni dopo, quando ero sindaco, conobbi Cesare Brandi e sentii ripetere da lui più e più volte la sua nostalgia, che è oggi anche la nostra nostalgia, di quell’illumi-nazione della rupe che ne valorizzava il suo stagliarsi maestosa verso il cielo. Già, perché Orvieto è essenzialmente città alta, tagliata di netto dalla sua campagna, sicché più che di un rapporto di scambio città-campagna qui si intuisce una tendenza strutturale al dominio dell’una sull’altra e viceversa.
Più volte sono ricorso alla definizione che ne aveva dato molti secoli fa Fazio degli Uberti, per indicarne il tratto distintivo: città “alta e strana”. E’ quella congiunzione che fa la differenza: la categoria dello strano designa storicamente, per il suo stesso etimo – extraneu(m) “estraneo”, da extra “fuori” -, ciò che esce dal normale e che perciò genera stupore, o anche sospetto, ed è per questo considerato “straniero”. In fondo, forse proprio perché città alta e separata dal suo stesso territorio, Orvieto sembra considerare se stessa e comportarsi come estranea e perfino straniera. Se si scende da Buonviaggio in qualche mattina d’autunno può accaderti di vedere il Duomo uscire su dal gran mare di nebbia che invade la vallata e di avere l’impressione di trovarti di fronte ad una gigantesca nave immobile, arenatasi chissà quando e in perenne attesa di ripartire.
Allora ti viene in mente la difficile condizione dell’equipaggio e del suo capitano e quella dei passeggeri, costretti a navigare senza mare, senza poter toccare altri porti e incontrare altre genti. Mi sono chiesto tante volte se la “stranezza” fisica della città abbia avuto una qualche influenza sulla “stranezza” delle vicende dei suoi cittadini. Qualunque sia la risposta, è certo che, mentre essi sono in grado di guardare dall’alto, trovano, senza averne colpa, una certa difficoltà a guardarsi dall’alto. Ed essendo passeggeri di una nave di terra, spesso litigano fra loro per cose futili pensando che il mondo sia tutto lì.
Eppure basterebbe spostarsi un po’ e salire su verso le colline che portano ad Allerona, il punto più alto del territorio, per rendersi conto che Orvieto non è così alta come sembra a qualche suo abitante e che la sua stranezza sta tutta nel suo sentirsi e comportarsi da nave di terra.
Da lassù, da Allerona, lo sguardo può spaziare verso San Casciano, Radicofani e l’Amiata, o verso Città della Pieve, Perugia e l’Appennino. Da lassù Orvieto apparirà ancora bella e maestosa, importante e preziosa, ma ben inserita nel suo territorio, parte di un tutto più vasto, più ricco, più dinamico e stimolante.
Ecco il punto: proviamo non più solo a guardare dall’alto, ma a guardarci dall’alto! Ci accorgeremo che anche gli altri ci guarderanno con occhi diversi. Proviamo ad accettare la contaminazione delle diversità e la nostra identità ne uscirà rafforzata. Proviamo a pensare che, potenzialmente, in qualunque luogo ci troviamo possiamo portare su un piccolo schermo tutte le notizie e le immagini di tutti i luoghi del mondo e possiamo parlare con tutte le persone del mondo.
Proviamo a renderci conto che la difesa passiva, ognuno chiuso nel proprio recinto, è ormai solo una disperata resistenza che al massimo può ritardare cambiamenti altrimenti inevitabili. Proviamo dunque ad occuparci delle cose private e della cosa pubblica ritenendoci mondo e comportandoci da mondo e, forse, riusciremo a trasformare tutto il nostro territorio in una grande risorsa comune da spendere in una competizione positiva con gli altri.
Pensare in grande, volare alto, sognare: è il massimo del realismo. Per uno di Allerona è più facile, anche se, com’è evidente, certamente non basta.

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