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La storia al futuro: un distretto culturale comprensoriale

di Daniele Di Loreto

“La storia, nel suo sedimentarsi, partorisce il futuro, creando patrimoni e valori culturali che possono di continuo porsi a fondamento della coscienza civile di una nazione”, scrive Antonio Maccanico nella presentazione del IV Rapporto annuale dell’Associazione Civita, di cui egli è Presidente. Pur riconoscendo questa realtà, fino a tempi molto recenti l’Italia ha fatto fatica a convincersi che i beni culturali e le attività volte alla loro valorizzazione potessero avere anche rilevanza economica, perché il mito dello sviluppo ha teso ad individuare valenze di crescita del reddito e d’incremento dell’occupazione soltanto nei processi tradizionali di produzione dei beni materiali. Il Rapporto dell’Associazione Civita rappresenta uno dei primi tentativi di assumere i beni culturali e ambientali come un capitale, capace realmente di produrre reddito e occupazione partecipando allo sviluppo economico dell’Italia in modo assai più consistente di quanto attualmente non avvenga. Oltre alla fruizione da parte degli appassionati quale altra funzione hanno i beni culturali? Sono anche memoria storica ed espressione del grado di civiltà di un popolo, e, quindi, loro tradizione ed identità? Sono anche funzionali all’innalzamento del grado e della qualità della cultura generale? Sono anche beni economici, la cui valorizzazione è in grado di dare uno specifico contributo alla crescita dell’economia nazionale in generale ed a quella dei sistemi locali in particolare?
Da queste domande parte l’analisi condotta dal Rapporto dell’Associazione Civita, intitolato “La storia al futuro” poiché è convinzione degli autori, che sulla storia sia possibile innescare un processo di specializzazione territoriale che consentirebbe di rendere effettivo un vantaggio competitivo, garantito dalla disponibilità di un immenso capitale artistico e paesaggistico. I beni culturali come impresa, quindi, per creare un binomio che sia idoneo ad avviare un circolo virtuoso tra ricchezza, sviluppo e occupazione. Affinché si verifichi un reale sviluppo occorre un processo di integrazione dei beni culturali negli altri circuiti economici e sociali, a livello nazionale ma soprattutto a livello locale; occorre un’industria turistica modernizzata nella sua organizzazione e nelle sue modalità di comunicazione; necessitano, infine, operazioni di marketing del territorio, programmi di adeguamento dei trasporti, adattamento delle infrastrutture. Un modello di sviluppo centrato sulla valorizzazione dei beni culturali postula, in altri termini, un’economia di distretto, che non sia, quindi, un’economia monoprodotto, ridotta semplicemente al settore dei beni culturali, ma un processo produttivo completo, in cui a prevalere sia la dimensione territoriale ed il tipo di legame, all’un tempo concorrenziale e cooperativo, che viene a determinarsi in quel particolare spazio fra i soggetti attivi, portatori di un patrimonio comune di valori, di saperi, di capacità organizzative. La scoperta del settore culturale, potenzialmente trainante dello sviluppo locale, può essere attribuita agli inglesi che, negli anni ‘70, elaborarono una vera e propria strategia di sviluppo basata sulla forte integrazione tra le attività del settore culturale e quelle dei settori connessi. Nasceva allora l’idea del cultural district, elaborata avendo a riferimento alcuni modelli storici, come l’area del Beaubourg e di Montmartre a Parigi, Soho e West End a Londra, Greenwich Village e Soho a New York; tutti esempi ove si è realizzato nel tempo un processo simbiotico, tra beni culturali ed economia, che ha dato la possibilità a queste aree di elaborare una loro propria storia in termini sia spaziali che socioeconomici. A Parigi, Beaubourg è sede del Museo Nazionale di Arte Moderna, progettato da Renzo Piano e inaugurato nel 1977, e Montmartre è il polo d’attrazione per artisti ed intellettuali. Soho, quartiere nel West End di Londra, fondato alla fine del 17° secolo grazie alle iniziative non propriamente limpide di un noto costruttore inglese, nell’800 divenne il quartiere degli immigranti. Fra le personalità che vi hanno abitato, il poeta William Blake, lo scrittore William Hazlitt e l’agitatore politico Karl Marx. Nel anni ‘70 Soho e la vicina Carnaby Street hanno alimentato il mito della “swinging London”, la Londra del divertimento, grazie a suoi night-clubs, ristoranti e caffè alla moda. Greenwich Village e Soho a New York nell’epoca coloniale erano piccoli villaggi di pescatori; oggi sono quartieri residenziali, con numerosi caffè e ritrovi per intellettuali: in uno di questi, ogni lunedi sera l’attore Woody Allen suona il clarinetto con il suo gruppo Dixieland.
La ricetta, quindi, contenuta nel Rapporto dell’Associazione Civita propone di organizzare l’offerta culturale secondo una logica di distretto, stimolare la flessibilità del mercato del lavoro, fare leva sugli incentivi fiscali, potenziare il rapporto pubblico-privato: una sorta di microsistema economico integrato pluriprodotto, in grado di produrre redditività. Il prof. Gianfranco Imperatori, Segretario Generale dell’Associazione Civita, ritiene che in questo processo le amministrazioni pubbliche debbano assumersi precise responsabilità: spetta a loro garantire condizioni regolamentari capaci di stimolare forme organiche di partenariato tra soggetti pubblici e privati, determinando la partecipazione, quanto più ampia possibile, del settore privato agli investimenti e anche alla gestione del sistema dei beni culturali.
Tra i quattro casi di studio presentati nel Rapporto ve ne è uno che analizza l’area del lago di Bolsena e dell’Orvietano, nell’ambito della quale si trova Civita di Bagnoregio, da cui l’Associazione Civita ha tratto le sue origini quando nel 1987 è stata costituita e si è resa protagonista della valorizzazione delle risorse di questa zona, unendo grandi imprese, enti pubblici di ricerca e università per far fronte al degrado e dare un futuro alla “città che muore”, come fu definita da Bonaventura Tecchi. La zona in esame, che comprende anche Allerona, peraltro citata nel Rapporto, possiede un vasto patrimonio archeologico, incentrato su notevoli presenze etrusche che rappresentano una larga parte del complesso delle emergenze archeologiche di questa antica civiltà. Un immenso patrimonio che però è trascurato, insufficientemente valorizzato, “malvenduto” come lo definisce Alvaro Baffo che ha curato questo caso di studio. Orvieto, Bolsena e gli altri centri minori costituiscono un patrimonio archeologico, storico-culturale rinascimentale e barocco, ambientale, connesso ad una concentrazione fuori dal comune di beni storici, artistici e religiosi di altissimo valore. In quest’area vi sono centri storici di grande bellezza estetica e di straordinaria intensità urbanistica, nonché zone naturalistiche di notevole livello: Acquapendente, San Casciano dei Bagni e Allerona, per esempio, rappresentano un triangolo virtuale definito “il triangolo benedetto d’Italia”, crocevia di tre Regioni, dove ambiente storia e antiche tradizioni s’incontrano. A queste pluralità storico-culturali si accompagnano ottime condizioni di contesto: buona qualità della vita, clima favorevole, ricchezza di tradizioni popolari, raffinato patrimonio gastronomico, diffusa cultura dell’accoglienza. Tutto ciò necessita di una progettualità, che sappia unire le potenzialità finora inespresse e fornire proposte promozionali di alto livello qualitativo. In questa logica hanno un ruolo fondamentale anche i Comuni di piccole dimensioni, che tendono ad operare in modo indipendente gli uni dagli altri, senza tenere conto che sono di fatto “nodi” di una fitta rete che comprende anche i centri vicini. Ogni centro, infatti, offre non solo la capacità di attrazione e i servizi del proprio patrimonio culturale ma anche quella dei centri limitrofi: in altri termini si può dire che in queste aree vi è una condizione di particolare favore, una “città diffusa” di tipo spontaneo. In questo contesto il sistema pubblico, che in questa zona di confine, più di quanto non avvenga in altre aree, è esposto al rischio di essere soverchiato da programmi sovraordinati che cadono dall’alto, dovrà fornire risposte adeguate per trattare le risorse locali come sistema e l’ambito territoriale come distretto.

Alcune riflessioni per una corretta analisi etnografica della festa di Sant’Isidoro e dei Pugnaloni ad Allerona

di Giancarlo Baronti (*)

Tutti i lettori sicuramente conoscono la festa che si svolge nella seconda metà di maggio ad Allerona e molti vi avranno assistito o preso parte in più di un’occasione. Coloro che partecipano alla festa non hanno né il bisogno né lo stimolo di riflettervi sopra perché la hanno vissuta e continuano a viverla con l’immediatezza della ovvia ed indiscutibile tradizione di uno specifico ciclo calendariale; quelli che sporadicamente vi assistono, da turisti o curiosi, si limitano a registrare, in tutti i sensi, la singolare specificità dell’evento. L’atteggiamento professionale dell’etnografo, invece, deve essere profondamente diverso: studiare una festa significa innanzitutto procedere ad una completa osservazione diretta e ad un corretto rilevamento, mediante interviste, filmati, fotografie, registrazioni sonore, non solo delle sequenze rituali che si dipanano nel giorno della festa ma anche di tutto ciò che sta dietro, prima e dopo l’evento festivo, la “vigilia”, la preparazione, l’allestimento, le modalità di reperimento delle risorse investite, gli oggetti e gli addobbi, le riunioni conviviali.
Inoltre la festa indagata deve essere inserita all’interno del ciclo calendariale della comunità, individuando gli elementi che la collegano ad altri eventi festivi dell’anno; all’interno di una collettività ogni evento ritualmente scandito appare infatti collegato agli altri rilevanti eventi che definiscono il ciclo delle cerimonie annuali. In secondo luogo la festa deve essere comparata alle feste che si svolgono in aree contermini nello stesso periodo stagionale, per individuare quegli elementi di affinità o di scarto che consentono di collocare ciascun evento, sia pur nella sua specificità, all’interno di una morfologia rituale di più ampio respiro.
Infine è necessario procedere ad una operazione accurata di ricerca e di spoglio di tutti i documenti prodotti nel passato sulla festa per poterne cogliere le trasformazioni nel tempo ed eventualmente individuare elementi utili per ipotizzare una linea genealogica.
La festa di Allerona non è ancora stata sufficientemente e correttamente indagata e pertanto questo mio breve intervento non può avere la pretesa di analizzare e descrivere dettagliatamente i conosciuti eventi rituali che si attuano nell’occasione festiva, ma deve limitarsi a puntualizzare alcuni elementi di fondo che permettano di comprendere la festa nella sua dimensione sincronica e ad evidenziare gli innegabili punti di collegamento con altre manifestazioni contigue (arealmente e temporalmente) in modo da poter porre il problema diacronico, quello “dell’origine della festa”, nel modo più corretto possibile.
Già solo nel presentare la festa si incontrano alcuni nuclei problematici su cui è doveroso riflettere. Il primo concerne la denominazione della festa: è la festa dei ‘pugnaloni’ o la festa di S. Isidoro? Coloro che vedono prevalere gli aspetti religiosi optano abitualmente per la seconda denominazione, mentre le recenti guide turistiche che tendono a sottolineare le “peculiarità” delle diverse manifestazioni preferiscono la prima. Non si tratta di una questione da poco perché pone l’attenzione su uno dei temi decisivi per l’interpretazione dell’evento festivo: i rapporti tra il culto del santo spagnolo e le macchine arboree che costituiscono l’elemento di spicco della festa. Già nel corso degli ultimi ottanta anni, che approssimativamente costituiscono il limite della memoria vivente, i ‘pugnaloni’ sembrano essere stati più volte radicalmente modificati e trasformati, fatti oggetto di processi di rielaborazione sulla base di istanze non sempre chiaramente decifrabili. Appare quindi perlomeno azzardato ipotizzare come è stato fatto e come, purtroppo, si continua ancora a fare senza nessun elemento probante, che la forma e la funzione dei ‘pugnaloni’ derivino direttamente da antecedenti documentati nel mondo classico. Se mai, nell’analisi della festa è da tenere in considerazione il rapporto di tipo cronologico o tipologico che essa intrattiene con manifestazioni festive che si svolgono nelle aree contermini (ad esempio la omonima festa dei Pugnaloni ad Acquapendente, la festa di S. Pancrazio a Castelgiorgio) e quindi con un più generale ciclo festivo di maggio, evitando però affrettate conclusioni e generalizzazioni prive di significato. Allo stato attuale delle conoscenze, resta infatti difficile anche ipotizzare un processo di sincretismo tra un’antecedente festa di maggio e la figura di S.Isidoro, operatosi nel corso della diffusione seicentesca del culto, in quanto sarebbe necessario spiegare come abbiano potuto continuare a svolgersi ad Allerona fino alla fine del diciassettesimo secolo rituali arborei di maggio al di fuori di ogni controllo ecclesiastico.
Il secondo problema riguarda la cadenza temporale della festa di S. Isidoro: oggi è fissata alla terza domenica di maggio, fino al 1978 cadeva invece nel lunedì successivo alla seconda domenica di maggio in cui, ad Allerona, si festeggia il patrono S. Ansano. Questo recente assestamento calendariale obbedisce, evidentemente, a ragioni di ordine pratico ed organizzativo, ma ha provocato una netta separazione tra le due occasioni festive ed una scissione tra le due figure del sacro, S. Ansano e S. Isidoro che apparivano invece strettamente associate nella cadenza calendariale e quindi e, sottolineerei, soprattutto nella organizzazione simbolica e nella rappresentazione del proprio mondo operata dalla comunità locale.
Altro elemento da indagare nei rapporti tra le figure dei due santi riguarda proprio la festa del santo patrono, Ansano, che appare duplicata nel ciclo annuale: una si svolge nella data liturgica del primo dicembre mentre l’altra, come abbiamo detto, nella seconda domenica di maggio. La duplicazione degli eventi festivi non è un caso raro, si pensi ad esempio a due santi “invernali” come S. Antonio Abate (17 gennaio) e S. Domenico Abate (22 gennaio) che in alcune aree montane, per motivi meteorologici o logistici, vengono celebrati anche e soprattutto nel periodo estivo, ma appare necessario indagare sulle reali motivazioni che, nel passato, hanno condotto a tale duplicazione. Il culto locale di S. Ansano, di evidente derivazione toscana, è sicuramente più antico di quello di S. Isidoro (attestato con sicurezza a partire dal 1673, circa un cinquantennio dopo la canonizzazione avvenuta nel 1622) la cui festa nel calendario liturgico è fissata al 15 maggio. S. Isidoro è il santo dei contadini, anzi il santo dei buoni contadini, laboriosi e rispettosi e proprio sotto questo segno il suo culto è stato alacremente diffuso nelle campagne non solo dalla Chiesa ma anche dai proprietari terrieri. Non appare quindi strano che in una piccola comunità in cui la netta divisione sociale corrisponde anche ad una netta separazione insediativa (i mezzadri sparsi nelle campagne, i proprietari arroccati nel borgo) in un determinato periodo storico si sia trovato opportuno “sottomettere” significativamente il santo dei contadini, anteponendogli il giorno precedente la festa del santo patrono del borgo. Il recente slittamento della celebrazione di S. Isidoro alla domenica successiva, oltre a rispondere a motivi di ordine pratico, sembra infatti un tentativo di attenuare gli echi ed il ricordo di una conflittualità tra “città e campagna” che oggi in effetti, dopo la completa dissoluzione della mezzadria e lo spopolamento rurale, non ha più senso.
Altro elemento interessante su cui pare necessario riflettere e indagare, in questa prospettiva, è la recente introduzione del “corteo storico” in cui sfilano figuranti vestiti con costumi ottocenteschi. Fenomeni di tal tipo sono largamente diffusi in altre situazioni regionali in cui la “invenzione della tradizione”, la creazione ex-novo di occasioni festive collocate in un’epoca medievale o barocca resa più o meno realisticamente, cerca di affermare una continuità storica con un passato in cui si situano le radici della propria identità locale. Poiché ad Allerona la festa già esisteva e si svolgeva senza soluzione di continuità, il tentativo di “ingabbiarla” nel passato e quindi di trasformarla radicalmente, assume caratteri sicuramente più ambigui: in effetti, con l’introduzione dei figuranti in costume, quella che si svolge nella seconda metà di maggio ad Allerona non appare più come una festa viva che risponde ad esigenze concrete del presente, ma si presenta come la “rievocazione”, la “citazione” e la rappresentazione di una festa che fu e quindi svuotata di ogni altro significato che non sia quello della annuale ripetizione a scopo turistico. L’introduzione del corteo storico, probabilmente, dico probabimente perché le ipotesi sono tutte da verificare, sembrerebbe collegarsi al processo di definitiva crisi del mondo mezzadrile tradizionale che organizzava in proprio la festa ed al contemporaneo passaggio della sua gestione all’ambiente urbano che, forse anche inconsapevolmente nel tentativo di renderla più appetibile e più fruibile, ha finito di svuotarla del senso “conflittuale” che possedeva in quanto festa del santo contadino, dei contadini, gestita ed organizzata in proprio dai contadini. Altro aspetto importante da indagare in questa prospettiva nella festa alleronese è la centralità che vi assume la rappresentazione miniaturizzata della vita e del mondo contadino che viene presentata sui pianali dei diversi carri al cui centro sono issati i ‘pugnaloni’: la costante presenza dell’evento miracoloso di S. Isidoro in ogni allestimento tende anche a destorificare un mondo puntigliosamente documentato in modello ridotto nei fondamentali aspetti della produzione economica e della sussistenza materiale, tende ad affidare alla potenza del sacro gli elementi cardine che permettono alla comunità rurale locale di “stare al mondo”. Ma la miniaturizzazione, tipica quella presepiale, permette anche di illustrare e di cogliere nel suo insieme una realtà altrimenti complessa e sfuggente e quindi di manifestarla nella sua dura completezza: non a caso, nel giorno della festa, i carri che salgono dalla campagna sino al borgo, dopo aver sfilato e sostato nella piazzetta antistante la porta principale del paese, vengono dislocati in diversi slarghi presenti entro le mura urbiche, quasi per mettere sotto gli occhi degli altezzosi abitanti del borgo quel mondo del lavoro dei campi da cui traggono il loro benessere.

* Professore Associato di Storia delle Tradizioni Popolari – Università di Perugia

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