Archivi per la categoria ‘heimat 2000/3’

Animali, Animalisti e Tradizione

di Giancarlo Baffo

Sottovalutare sistematicamente il nesso che, da sempre, unisce la violenza al Sacro è uno degli snobismi caratteristici del “politicamente corretto”: si tratta di un atteggiamento talora ineccepibile, se consapevolmente riferito a contesti culturali e religiosi assolutamente altri rispetto a quello cristiano-occidentale (in cui la violenza erompe ancora nella sua immediata e nuda brutalità), insopportabilmente mistificante, qualora si pretenda di applicarlo con sbrigativa disinvoltura alla nostra dimensione. Nel secondo caso, come tutto il “dibattito” sulla Palombella sta a dimostrare, si finisce per voler astrattamente fuoriuscire dalla propria pelle, pretendendo di porsi, con argomenti assai fragili quando non del tutto inconsistenti, oltre quella che è la nostra storicità, la nostra Heimat. In principio era la violenza: questo sanno ormai, con sufficiente chiarezza, tutti coloro che si occupano – al di fuori d’ogni preoccupazione ideologica – di scienze umane. Il religioso o, meglio, il Sacro, rappresenta la sfera in cui si conserva simbolicamente l’ineliminabile memoria di tale “violenza essenziale”, quella, come ha mostrato Renè Girard, da cui l’Occidente è fuoriuscito attraverso l’assassinio rituale, passando dallo stato di natura alla civiltà. Prima del cristianesimo, il “meccanismo vittimario” rimane del tutto irriflesso: nel mito e nella tragedia greca, la violenza essenziale – contrariamente a ciò che pensava Hobbes – conduce alla guerra di tutti contro uno, alla vittimizzazione del “capro espiatorio” sulla cui ambigua sacralizzazione viene successivamente costruita la cultura. Col cristianesimo, tutto ciò ha fine: lo scandalo della Crocifissione , è per l’Occidente l’ultimo sacrificio perpetrato poichè, di là da ogni proiezione “triangolare”, la violenza è riportata a se stessa e quindi, dal punto di vista ideale, per dirla con Schelling, definitivamente oltrepassata. Cristo, vittima assolutamente innocente, svela il meccanismo vittimario che produce capri espiatori, smaschera la dinamica proiettiva del desiderio mimetico che genera “risentimento” e violenza e riporta l’umanità occidentale alla mitezza della humilitas: al senso possibile di un pacifico abitare la Terra (humi). Tuttavia, in tutto ciò non v’è alcun superamento dialettico, nessun illuministico progresso, nessun inizio secolarizzante. La liturgia cristiana (specie nelle forme della religiosità popolare cattolica) custodisce le tracce immemoriali della violenza sacra, preservandoci dalla deriva nichilista dell’oblio razionalistico e proprio in ciò sta paradossalmente il fondamento dell’apertura alla libertà e alla tolleranza che è propria dell’Occidente. Solo laddove venga salvata/conservata la memoria della violenza originaria si è relativamente al sicuro dai rigurgiti “reali” della violenza essenziale, dalle seduzioni utopiche che predicano l’impossibile fine della violenza ideale, dall’anticristico miraggio di un “mondo senza il male”, da sempre fomite di inaudite violenze e ingiustizie. Sennonchè, la Palombella non è solo una “paziente” vittima simbolica: è un “animale sacrificale” sui generis che, in forza della sua formidabile valenza pneumatica, tende , in piena empatia col popolo orvietano, al di là di sè – del suo sè specifico- fino a simboleggiare trionfalmente, nella sua tragica grandezza, la perigliosa esistenza dell’uomo. Pretendere di considerare la Palombella come un mero animale maltrattato, come un anodino orpello da salotto, vittima innocente di una ignorante brutalità popolare bisognosa di snobistica edificazione, significa offenderne la simbolica maestà. Simbolo assoluto dell’arrischio radicale dell’esistenza e della sua irriducibile ambiguità, la Palomba è una testimonianza visibile delle abissali vertigini dello spirito, librato su una civiltà in cui di una innocente natura “pagana”, disponibile solo che ci si converta all’ultimo grido del new age – con buona pace di tutte le “anime belle”- non ne è più nulla. Ecco perchè, da sempre, gli orvietani sentono la Palombella – più ancora che come una metafora che mette capo alla naturalità immediata, folklorica, dell’irrecuperabile mondo agricolo – come una di loro e trepidano per la sua impresa, commossi per la fierezza dionisiaca del suo capino che svetta sul tumulto della vita a corroborarli, riconoscenti per il suo trasumanare che infonde loro speranza. E dunque: se davvero la festa configura violazioni rispetto alla sensibilità etico-giuridica attuale (come, però, ripetute ed argomentate pronunce della magistratura tendono ad escludere), la si abolisca del tutto, in ossequio allo stolido proibizionismo trionfante. Ma se ciò non è, la si lasci stare: anche le tradizioni sono organismi delicati e complessi. L’unica cosa che andrebbe risparmiata alla Città è la parodia di una Palombella “concertata”, viva ma ipocritamente “intubata”, vittima autenticamente violentata dagli opportunismi disperati di culture del tramonto: “Il deserto cresce…”

Alcune riflessioni su un documento presentato alla Consulta per il Turismo

di Daniele Di Loreto

Qualche anno fa Jack Lang, ex Ministro della cultura francese, disse che l’Italia si può paragonare a un contadino che sapendo di avere sotto il suo campo una miniera di diamanti preferisce coltivarci sopra patate. In una recente pubblicazione intitolata “Caccia ai tesori d’Italia”, Ermete Realacci, Presidente Nazionale di Legambiente, afferma che le nostre città sono una delle risorse più preziose di cui disponiamo e sono anche la fonte principale della nostra identità nazionale; la strada della loro valorizzazione e della tutela – egli sostiene – è l’unica per dare all’Italia un futuro di benessere e agli italiani un senso di appartenenza forte e condiviso. Nella stessa pubblicazione Gianfranco Imperatori, Segretario generale dell’Associazione Civita, considera i tesori italiani la memoria della nostra civitas, intesa come luogo di appartenenza e convivenza civile. Nel rapporto presentato alla Consulta per il turismo, recentemente istituita nel Comune di Allerona per iniziativa dell’assessore al turismo neo nominato e approvata con il consenso unanime del Consiglio comunale, Lucio Lupini, esperto di problematiche connesse al turismo, sostiene che “il problema eminente ed immediato per Allerona sembra essere quello della scarsa utilizzazione delle potenzialità esistenti” (pag. 59), come a dire “signori avete il vostro piccolo campo di diamanti e ci state coltivando sopra patate”; sostiene poi che “la filosofia che sottende il Progetto (di sviluppo turistico, n.d.a.) è il coinvolgimento complessivo di tutti i soggetti individuati e … il confronto costante comporta il considerarsi tutti facenti parte della Azienda Allerona” (pag. 79), vale a dire “il sistema funziona se è vivo il senso di appartenenza al proprio paese e tutti marciano nella stessa direzione sulla stessa strada della valorizzazione”; prosegue affermando che “l’idea di fondo … è quella di un concetto di vacanza che proponga contemporaneamente un richiamo alla memoria … Va altresì sottolineata la modalità di fruizione personale ed il senso di appartenenza” (pag. 113), che egli stesso spiega con il messaggio “terra di Allerona la mia terra, un ambiente curato ed amato dall’uomo che lo ha vissuto nel suo rispetto aggiungendo elementi di pregio”.
Condivido quanto detto da Jack Lang, da Ermete Realacci, da Gianfranco Imperatori e non posso che condividere quanto Lucio Lupini ha scritto nel suo studio di sviluppo turistico del territorio di Allerona. Non conosco Lucio Lupini, non l’ho mai incontrato, non so se è di destra o di sinistra, se la domenica va in chiesa, in moschea oppure al mare, se è cattolico o musulmano, se legge L’Unità o Il Secolo, nè me ne importa niente; valuto un suo lavoro e lo apprezzo: il lavoro, non lui che non conosco e seppure lo conoscessi non mi permetterei mai alcun giudizio. Apprezzo un lavoro sul piano dell’oggettività e mi ci riconosco. Tutto qui. Per me è semplice, come è semplice dire che vorrei avere un Ministro ai Trasporti che sappia far funzionare bene le ferrovie, uno alla Sanità che renda efficienti e decorosi gli ospedali e uno all’Interno che garantisca maggiore sicurezza. Che poi partecipino al Gay Pride oppure no è affar loro, non mi riguarda.
Purtroppo non funziona così. L’appartenenza ad un gruppo non solo cataloga le persone ma anche le cose che essi fanno e dicono e le valutazioni conseguenti da parte degli altri non sono mai, o quasi mai, sul piano dell’oggettività e della ragione. Non si spiegherebbe altrimenti, ad esempio, la difesa strenua che gli iscritti ad un partito fanno dei propri esponenti anche di fronte ad azioni da essi realizzate che risultano sul piano dell’oggettività e della ragione le più inadeguate. Una specie di tifo, una passione sportiva ed entusiastica che si esprime in stato di eccitazione e, quindi, non di serena valutazione. Condivido lo studio di Lucio Lupini anche perchè ritrovo in esso quanto ho finora sostenuto: nel programma amministrativo per le elezioni dello scorso anno, nei miei interventi in Consiglio comunale, negli articoli su questa rivista e su quella dell’amministrazione comunale, nelle interviste pubblicate dalla stampa locale.
Ho parlato di potenzialità inespresse, di progetto e di sistema paese, di sana competizione con i Comuni limitrofi e nello stesso tempo di network (“viviamo in una città diffusa di tipo spontaneo”, Heimat n.1), di senso di appartenenza alla collettività (“Allerona ha bisogno di qualcosa che, al di là delle diverse ideologie politiche, rafforzi il senso di appartenenza alla collettività in cui viviamo”, Heimat n.0), di progettualità (“cogliamo l’occasione del PRUSST per il territorio degli etruschi, progetto di riqualificazione urbanistica e di sviluppo sostenibile del territorio, per avviare un ‘prustino’ per il nostro Comune!”, Consiglio Comunale del 9 agosto 1999).
Finora le mie proposte non hanno ottenuto approvazione; forse ho sbagliato gruppo. Di sicuro, però, non ho sbagliato ad iscrivermi all’Associazione Amici di Allerona, almeno secondo il pensiero di Lucio Lupini. Posso dirlo con la certezza di essere condiviso dall’autore dello studio perchè proprio lui mi sembra che dia forza e valore all’Associazione quando afferma che “elemento fondamentale e caratterizzante dell’offerta può essere…il far considerare il turista un amico…e si può prevedere una attestazione, l’iscrizione ad un Club Terra di Allerona” (pag.130). Club Terra di Allerona o Associazione Amici di Allerona: diverse espressioni per dire la stessa cosa, come dire Consulta per il turismo o Agenzia per lo Sviluppo e la Promozione Territoriale.

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