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Parola chiave: Terra

di Giancarlo Baffo

Guai a chi non ha patria
(F. Nietzsche)

Tornando sul cruciale nodo Terra/Heimat (e rinviando a quanto dottamente già argomentato in proposito da P. Caracciolo nel 2° numero di Heimat) vale la pena di ribadire che, in antico tedesco, la radice Heim richiama il focolare che marca il centro dell’abitare, il “fuoco” della vita domestica. Heimat, dunque, ha etimologicamente a che fare con l’abitare dell’uomo, è abitazione concreta, prima ancora che ideologica “patria”, è attività , non sostanza, funzione, non essenza: non c’è “patria” se non laddove effettualmente si abita. Una patria remota e vagheggiata, non attualmente dispiegata e solo cullata nel ricordo, intenzionata come oggetto di una tracotante “volontà di potenza”, alla luce dell’etimo, è già una contradictio in adjecto.
Di qui è necessario partire se si vuole preservare questo nucleo semantico da ogni ambiguità “reazionaria”. Sennonché, tutti ormai sappiamo, dalla lezione del “secondo” Heidegger, che la Heimatlosigkeit – l’assenza di patria o la “spaesatezza” – è la condizione normale, il “destino” dell’uomo dell’età della tecnica, che, secondo la Lettera sull’umanismo, va pensata a partire dalla storia dell’essere. Come tale, l’evento che realizza l’assenza di patria non può essere messo in parentesi da furori volontaristici, dalla velleità “archeologica” di recuperare un’origine: esso è inscritto nel destino dei mortali come destinatari dell’invio dell’essere, come segno inalienabile della loro costitutiva storicità. Pensare la Heimat, allora, non significa necessariamente perseguire un anacronistico recupero dell’intimità d’un focolare inteso come origine e fondamento sottratto alla storicità del mondo: è l’esatto opposto d’ogni nostalgia per il mito del Blut und Boden, il “sangue e suolo” di famigerata memoria. Il tratto fondamentale della storicità di questa epoca, di questo eone, è appunto l’assenza di patria: come avevano già limpidamente compreso i Romantici (e Heidegger nella loro scia, attraverso tortuosi ma inequivoci percorsi), nei confronti di una terra metafisicamente salda il contemporaneo non può che avere un rapporto negativo. L’idea classica e conservatrice di terra come sostrato naturale dell’agire umano s’è irrevocabilmente consumata nel corso della storia dell’essere in quanto metafisica, cosicché ogni idea di Physis, che sia possibile recuperare solo che lo si voglia, per così dire, superomisticamente, ci appare modernamente come il massimo dell’artificiale. Inoltre , se la Heimat rientra in una idea di natura come momento di passaggio eticizzante allo Spirito, secondo un modello di tipo idealistico-dialettico, allora la seduzione totalitaria dello storicismo (Historismus) è in agguato, come acutamente vide il meglio del pensiero neo-ebraico contemporaneo. In questo caso, per sfuggire alla presa violenta della Legge della Terra, è necessario “gettare le radici in se stessi”, farsi “errante radice”, libera dall’ancoraggio al suolo, ritrovando la Heimat nell’eternità del proprio Esserci. In ogni caso, pensare la Heimat non può significare Heimkehr, “ritorno a casa”, nostalgia dell’origine. Di ciò, tutta la grande arte contemporanea è continua testimonianza: se per Rilke la vita è costitutivamente un “esser fuori”, alla goethiana domanda del Faust (“Dove andiamo ?”), Nietzsche risponde recisamente: “Mai a casa”, mentre il Cacciatore Gracco di Kafka, dopo secoli di erramento, finisce per non trovare casa nemmeno nella morte.
Perché riflettere ancora sulla Heimat allora? Proprio perché è il luogo di un assoluto paradosso, traccia d’una impossibile nostalgia e, nel contempo, – antinomicamente – riproposizione di una ineludibile domanda. Rifiutando una chiamata all’Università di Berlino nel 1933, “quando in Germania abbuia” (P. Celan), Heidegger, alla sirena della Capitale, oppone molto semplicemente (ed assai più “politicamente” di quanto non sembrasse allora, nonostante le sue indiscutibili corrività) le ragioni del “paesaggio creativo” dell’amata Brisgovia, in grado, a suo parere, di fornire una risposta soddisfacente alla domanda: “Warum bleiben wir in der Provinz ?” (“Perché rimaniamo in provincia?”). Sappiamo poi che, dopo la tragedia tedesca, riflettendo sulla storia della metafisica e sull’essenza della tecnica come fattore della devastazione della Terra, Heidegger, sulla scia di Hoelderlin, individuerà nella poesia l’essenza autentica di quell’abitare: l’uomo abita “poeticamente” la Terra, poiché, come è noto, il linguaggio è la casa dell’Essere e l’uomo abita in questa casa. Ma la casa dell’Essere di cui parla il secondo Heidegger non è più la luminosa custodia dell’essere metafisico: l’Occidente come “terra della sera” vive il tramonto dell’essere “forte” della tradizione, esposto al rischio di un’epoca in cui l’Essere si dà antinomicamente, sottraendosi. Se mai un “dio venturo” verrà a salvarci – dirà dopo Hiroshima – possiamo enigmaticamente indovinarlo solo dalle parole dei poeti, “pastori” dell’Essere-linguaggio. Parlando della sua personale diaspora, Paul Celan, dirà poco tempo dopo che per il sopravvissuto alla Shoah, l’unica cosa che rimane “indenne in mezzo alle perdite” è la lingua, anche se si tratta della stessa parlata dai persecutori. L’apologeta della terra tedesca e l’ebreo apolide convergono su questo punto decisivo: l’unica patria possibile per chi è costitutivamente senza patria, l’uomo di oggi, è il linguaggio, l’interpretazione. Heimat è così l’abitare, meglio, la condizione trascendentale che rende possibile ogni concreta abitazione, il dispiegamento del “quadrato” di cui parla l’ultimo Heidegger :Terra, Cielo, Dei, Mortali. A questo proposito, Heidegger ha parlato del dialetto come “misteriosa fonte d’ogni lingua cresciuta”, quindi come radice trascendentale di ogni Poesia. Anche in questo caso, non bisogna equivocare: il “dialetto” non si identifica con alcun concreto “idioletto”, secondo una prospettiva arcaicizzante e banalmente folclorica. Il poeta alamanno J. P. Hebel è così definito da Heidegger, in uno dei suoi ultimi scritti, “l’amico di casa”: il poeta in dialetto è tale perché custodisce e mantiene quella casa ch’è la lingua, in cui si manifesta la presenza o l’assenza dell’Essere ed in cui ad ogni popolo storico è concesso per parte sua di partecipare all’umanità: “ L’amico di casa è amico di quella casa che è il mondo” (Heidegger). Nessun idillio piccolo-borghese, dunque: nella Heimat così intesa, parla l’abissalità dell’esistenza, la gettatezza dell’Esserci, la sua essenziale mortalità. E tuttavia, come dice Rilke, “essere qui è molto”, anche se l’essere-qui, l’esser-ci, è costantemente in procinto di partire. Abgeschiedenheit, la (come tradurre ?) “dipartitezza”, è la sua essenza, il distaccarsi dall’origine pur portandola con sé, aprendosi al mondo (in Heidegger la sera dell’ Occidente, la tecnica) in una ininterrotta corrispondenza linguistica con l’essere.

Il Paglia, laboratorio per un modo nuovo di amministrare

di Jader Jacobelli

Quando Luigi Franzini, il direttore di Heimat, mi ha invitato a scrivere qualcosa sul fiume Paglia avendo appreso che a quel fiume avevo dedicato, l’estate scorsa, uno dei libretti con cui, a fini di informazione popolare, illustro luoghi e avvenimenti storici del nostro territorio (io sono bolognese, ma orvietano di elezione) i fiumi avevano la sonnolenza estiva ed erano tutti un po’ assetati. Ora che scrivo questa nota – è il 20 ottobre – tanti fiumi hanno invece dato di testa, si sono infuriati, e uscendo dai loro alvei consueti, hanno dilagato facendo incredibili danni a persone e cose, questa volta nel Nord. Scrivo perciò sotto questa terribile impressione con negli occhi immagini di dolore e di distruzioni che non si possono cancellare.
Anche il Paglia si è un po’ ingrossato in queste settimane, ma non è evaso. La memoria però è subito riandata a quella paginetta del libretto citato in cui ricordavo la disastrosa piena del 6-7 ottobre 1937, che aveva perfino mutato il corso del nostro fiume in più punti e travolto nei suoi vortici poveri contadini e animali sorpresi nelle vicinanze e atterrato tanti vigneti accrescendo la miseria del tempo. Quella piena fu clamorosa, tanto da divenire storica, ma altre se ne erano verificate e altre ne seguirono più contenute, ma non meno preoccupanti.
La natura – si dice – non è buona ed è cieca. Si può solo suonare le campane. Invece, no. La natura è paziente, ma esaurita la pazienza si ribella, sembra divenire vendicativa e fa pagare salate la speculazione e l’incuria nei suoi confronti. E la responsabilità va equamente ripartita: maggiore per le istituzioni che presiedono alla nostra sicurezza, ma, anche se minima, ognuno deve assumersene una quota parte. Ricordo che Kennedy disse ai suoi: “Non chiedetemi che cosa gli Stati Uniti possono fare per voi, ma cosa voi potete fare per gli Stati Uniti”. Il Paglia è un piccolo fiume di 67 chilometri. Molto debbono fare, per renderlo sicuro e amico, le autorità del territorio, ma qualcosa deve fare anche chiunque di noi ha con esso un qualunque continuo o occasionale rapporto, per rispettarlo, per non degradarlo.
Proprio con questa consapevolezza invitai ad agosto, alla presentazione del mio libretto, gli otto Sindaci del fiume, dalla sorgente alla foce – quelli di Abbadia San Salvatore, di Radicofani, di Piancastagnaio, di Proceno, di Acquapendente, di Castel Viscardo, di Allerona e di Orvieto – per richiamare la loro attenzione sui problemi del nostro fiume che, pur nel loro piccolo, sono problemi di tutti i fiumi, tutti storici, tutti belli, tutti preoccupanti, perché tutti trascurati. E debbo riconoscere che la loro risposta è stata responsabile, convenendo che qualcosa va fatto, qualcosa di serio, di funzionale, per esaltare la positività ambientale del nostro fiume, ma anche per ridurne la negatività. Ma perché le loro buone personali intenzioni siano produttive di risultati è necessario che l’intervento sia organico, che il programma sia unitario e concordato, che preveda la parte che ogni Comune deve svolgere nella misura e nei tempi più appropriati. Certo – si aggiunge, come sempre – c’e’ un problema di mezzi. Ma un programma condiviso da otto Comuni che, oltretutto, hanno amministrazioni di diverso orientamento politico, merita certamente anche il sostegno finanziario delle rispettive province e regioni. Il Paglia può diventare cosi l’esempio di una collaborazione intercomunale, interprovinciale e interregionale che può fare da modello “in vitro” per quelle più articolate collaborazioni di cui tanti altri fiumi abbisognano per non sconvolgere periodicamente la vita del nostro Paese. Non si tratta di ripulire soltanto i suoi argini, di rimuovere i rifiuti che in certi punti sono stati irresponsabilmente ammassati, di fare interventi estetici, ma di definire un vero e proprio “piano di bacino” che, pur nella modestia del Paglia, tenga conto di tutti i fattori idrogeologici che concorrono al suo risanamento e che preveda quelle eventuali ”linee di fuga” di cui anche un piccolo fiume ha bisogno per non fare danni quando il livello e la velocità dell’acqua aumentano in misura incompatibile. Il WWF – Autorità di Bacino del Tevere, ha fatto un serio studio in proposito anche per il Paglia che può essere assunto come base per un “programma di fattibilità”.
E’ stato scientificamente accertato che quando le lontre cessano di albergare in un fiume significa che esso è malato. Ebbene, un tempo, nel Paglia le lontre c’erano. Operiamo allora in modo che possano tornarvi, a riprova della sua recuperata salute. Ma facciamo presto senza aspettare un’altra piena. Diversamente, non soltanto le formiche, anche le lontre s’incazzano.

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