Terra e territorio

Dice l’architetto Giancarlo De Carlo: “Noi dovremmo inventare la città nuova, in continua trasformazione. Quella che aveva immaginato Calvino”. Vogliamo iniziare cosi l’editoriale di questo numero per rendere omaggio a Siena, terra di confine e città modello, esemplare testimonianza di conservazione e trasformazione, che con l’articolo del suo Sindaco e’ voluta entrare nel dibattito aperto da Jacobelli e Barbabella sulla nostra rivista.
Certo, iniziare il discorso che ci riguarda, quello sul nostro territorio, citando De Carlo e pensando a Siena, può sembrare pretenzioso e fuorviante, ce ne rendiamo conto. Ma ci conforta molto sapere che dietro Poggio Spino regna ancora una bellezza ben protetta e grande sensibilità nel trasformarla. Esserne un giorno contagiati, magari per cooptazione e’ il grande sogno, di almeno chi scrive. Diverso e’ invece il nostro versante. Da noi la situazione e’ di tutt’altra specie. Qui siamo intossicati da un orrido di nuova generazione, fatto di ignoranza e incapacità, una sorta di leviatano dei nostri tempi, che si nutre consumando territorio e partorisce orrende costruzioni che vanno sotto il nome di centri polivalenti, case popolari, scuole – che crollano dopo essere state costruite per svuotarne altre che funzionano. Ispiratore di politiche che generano abbandoni e di pigrizie mentali che producono mismanagement. La presenza, ad onor del vero, di qualche singolarità con oneste e sincere disponibilità di ascolto e significative capacita’ amministrative e progettuali, ancora non ci permette di essere indulgenti su di una generale e complessiva inadeguatezza al governo del territorio. Il discorso addirittura si complica a dar ragione allo psicanalista Carotenuto quando parla di correlazione tra ambiente degradato e persone “degradate”: “chi accetta che l’ambiente in cui vive si degradi ha già perso parte della sua condizione umana e si sta trasformando a sua volta in materia inerme”. Senza pretendere di entrare in questi terreni minati, consentiteci almeno di auspicare una più attenta presenza della cosiddetta Società Civile alla politica territoriale, scevra da pregiudizi e animata da libero pensiero.
Dal dopoguerra ad oggi, dice Bernardo Secchi, l’urbanista milanese che ha firmato i piani regolatori di Siena, Bergamo, ma anche di Madrid: “..il 97% del Paese e’ stato costruito dai geometri” – senza offesa per alcuno, ovviamente, anzi per non apparire snob, l’urbanista milanese si autoaccusa di moralismo – il risultato e’ comunque sotto gli occhi di tutti. Se non ci fossero stati i papi, i re, o qualche famiglia illuminata, ma anche senso di appartenenza e amor proprio – i regni insomma, teocratici o temporali che fossero poco importa – non avremmo avuto ne’ Duomi, ne’ chiese, ne’ chiesette o teatri che allora qui si chiamavano “dopolavoro”. Ma tante’, noi siamo vittime di una educazione che anziché insegnare a guardare le stelle (see the stars, e’ scritto negli asili americani), insegna tuttora a guardare dove mettere i piedi. Il contesto, nonostante ricordi quelle situazioni dove le stalle venivano chiuse appena i buoi erano scappati, permetterebbe ancora la soluzione del problema. Se cominciassimo ad esempio a ridefinire i parametri di una nuova “qualità urbana” come nel dibattito ospitato in questo numero tentano di fare alcuni nostri architetti, parametri che vietino costruzioni che siano al di sotto della qualità e nobiltà territoriale, e che impongano l’uso di tecniche ricostruttive e materiali particolari nell’arredo urbano; se provassimo ad immaginare un nuovo modello di struttura territoriale resa coesa da circuiti informativi, una sorta di “Paese di Piccoli Paesi”, dove ogni Paese e’ un nodo con una propria vocazione, una “città porosa” secondo la geniale visione ipotizzata da Paolo Borghi – la quale ben lungi dall’essere una mera astrazione, configura invece uno sbocco realistico alla soluzione di quelle “Terre Marginali” delle quali faceva menzione lo studio di Legambiente riportato da Fabiola Di Loreto su questo numero – forse ce la potremmo ancora fare. E se poi riuscissimo a ricostruire un nuovo e forte senso di appartenenza, a rispolverare la memoria delle nostre radici, a dare dignità a l’abitare, inteso come luogo di sosta e di ritorno (anche Ulisse ritorno’ ad Itaca!) allora avremmo ancora più chance di riuscire. E nell’attesa che fare? Verrebbe di suggerire un piccolo esercizio quotidiano che era solito consigliare Marinetti: “impugnate i picconi, le scuri, i martelli e demolite, demolite senza pietà le città venerate”.

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